Bambini sul palco. Il ritorno delle vallette. E una scaletta serrata che prova a spegnere persino Katia Follesa. Tanto più si costeggia il precipizio della banalità e più aumentano i numeri

Come un Giano canterino, Sanremo ha questa doppia faccia: da una parte il gradimento inequivocabile del pubblico che gli sta regalando numeri che imbarazzerebbero persino la calcolatrice. E dall’altra c’è la pura cronaca dello spettacolo che sfila sotto i nostri occhi. Un insieme gelido di bambini superdotati, di lacrime, di note o di storia del festival poco importa. Un’ostinazione all’entusiasmo da balera, che tributa una standing ovation alla Balorda nostalgia, che un tempo si chiamava canaglia ma più o meno l’emozione è la stessa. 

 

Il pubblico in deliquio per uno show in cui l’unica magia è il ritorno all’improvviso dei tatuaggi di Tony Effe. E che si costella dell’aggettivo “Straordinario” anche se mettendo vicini attimo dopo attimo di questa corsa contro il tempo sembra sempre più ordinario, con uno sguardo costante al passato come valore assoluto, negli ospiti, nelle citazioni, nelle battute al punto che i giovani tornano a esibirsi nella notte quando è fiaccato persino l’entusiasmo del loggione. 

 

E più si costeggia il precipizio della banalità più si consolida la certezza che i dati della terza serata supereranno gli spettatori dei Mondiali del ‘94. Si comincia con «Una serata dedicata alle donne straordinarie come solo le donne sanno essere». Talmente straordinarie che tornano le vallette, Elettra Lamborghini a cui viene chiesto al massimo un twerk e Miriam Leone che da poco è diventata madre e che sventola più strascichi che parole. 

 

Anche Ermal Meta è diventato padre, e chissà in platea quanti genitori ci sono, probabilmente verranno cercati per la finale. E sono “straordinarie” l’orchestra, le persone che lavorano dietro le quinte, le canzoni, la giacca di Simon Le Bon, la parolaccia di Iva Zanicchi, il tricolore della Vespucci, e persino i due poveri Maneskin che non sono riusciti a salire sul palco. 

 

Intanto si segue passo passo una scaletta secchiona, da cui non si può derogare mai, altrimenti qualcuno si diverte davvero e allora il gioco non torna più. Per questo ci sta stretta Katia Follesa, che prova a dire “che palle”, a sventolare le braccia e a citare Musk, ma senza una spalla a sostenerla e con quei ritmi si spegne come un cerino in abito da sera persino lei. E ci sta stretta pure l’esibizione del Teatro patologico di Dario D’Ambrosi, che prova a schiaffeggiare la serata ma viene sepolta sotto lo sguardo buonista che rende tutti dolcissimi come in uno sketch di Valerio Lundini. Ma tanto che importa, la platea urla Carlo sei uno di noi e ha sicuramente ragione, perché evidentemente questo è esattamente quello di cui ha bisogno, di una straordinaria ordinarietà. E come diceva Maurizio Ferrini, non capisco ma mi adeguo.