Un miracolo di equilibrismo e intelligenza. Anaïs Tellenne sfuoca i confini tra sogno e realtà. E dà vita a un piccolo grande film

Due creature che tutto divide. Un castello come quelli delle fiabe. Un film che non sbaglia una scena, portandoci in una dimensione fantastica e insieme più vera del vero dove ogni ambiente, ogni dettaglio, ogni snodo illumina più a fondo i sentimenti dei personaggi - e quelli degli spettatori. Variazione sul tema della Bella e la Bestia, ma anche di Pigmalione e Galatea, l’esordio della francese Anaïs Tellenne, classe 1987, è un miracolo di equilibrismo e intelligenza che estrae dalle sue limitate risorse tesori di bellezza plastica e verità psicologica. Unendo due interpreti opposti per storia e apparenze, il roccioso Raphael Thiéry, un colosso con una benda su un occhio e un fisico gotico che qualcuno ricorderà in “Poor Things” o in “Le vele scarlatte” di Pietro Marcello; e la perturbante Emmanuelle Devos, protagonista di tanto cinema recente, dai primi Audiard (la segretaria sorda di “Sulle mie labbra”) a “Dove non ho mai abitato” di Paolo Franchi. Qui rispettivamente il taciturno custode di un castello in Borgogna e la padrona del castello medesimo, inquieta artista contemporanea che può ricordare in parte Sophie Calle.

 

Lui un uomo di fatica dunque, che non ha mai fatto troppo caso a se stesso. Lei la donna che posando il suo sguardo su di lui gli aprirà gli occhi, facendolo sentire quasi un’opera vivente (“Lei è come un paesaggio… Potrei attraversarla per giornate intere”).

 

Ma anche liberandolo dai ruoli in cui lo costringono la sua vecchia madre (la tagliente Mireille Pitot) e la sua disinibita, intermittente amante (l’irresistibile Marie-Christine Orry, portatrice di un tratto umoristico che peraltro non esclude pathos e profondità). 

 

Conviene infatti spazzare il campo da ogni semplificazione melodrammatica. Padrone di sé e del proprio fisico singolare, l’ingenuo colosso è tutt’altro che un bruto o un frustrato. Anzi è a sua volta un artista che suona la cornamusa in un gruppo locale (un tratto ispirato al vero Thiéry, che con Tellenne ha girato vari corti riversando nella loro collaborazione gran parte della sua storia). Di qui la reciproca folgorazione fra artista e modello, con la sua inevitabile parte di illusione e dolore, almeno per lui. Anche se la regista sfuoca i confini tra sogno e realtà con tanta sapienza da cancellare ogni traccia d’artificio per far affiorare sullo schermo solo l’impronta più volatile e insieme persistente di quell’incontro impossibile, al crocevia tra arte e desiderio. Non solo un grande esordio insomma, ma un piccolo grande film tout court, che conviene davvero non farsi sfuggire.