Occupare case sfitte o fabbriche abbandonate è illegale. 
Ma dopo sei anni di crisi, 
sono sempre di più gli italiani 
che si mescolano a migranti 
e rom in questi spazi comuni. 
Che spesso diventano trincea 
di sopravvivenza quotidiana (Foto di Federico Romano)

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Se arrivi a occupare una casa, poi la parola chiave è una sola: autorganizzazione. Per le pulizie, la manutenzione, la sorveglianza anti-sgombero. E da qualche mese sono sorti nuovi problemi: ad esempio gli allacci di luce e acqua. Grazie all’articolo 5 del decreto Lupi, è infatti possibile sospendere l’erogazione delle utenze a chi abita abusivamente un alloggio. E così a Roma sono nati i Gruppi di Allaccio Popolare, con tanto di cellulare diffuso sui social. Basta chiamarli e vengono a riattaccarti tutto.

Di necessità virtù. C’è chi nell’edificio occupato mette su un piccolo orto. Chi adibisce una sala a centro congressi. Chi crea un ristorante etnico. O addirittura un museo, attirando turisti ed esperti, che amano farsi fotografare tra un quadro e una scultura, magari accanto ai ragazzini che giocano a pallone. A Roma ad esempio c’è il Maam, Museo dell’Altro e dell’Altrove: è nato dentro un ex salumificio Fiorucci alle spalle di Tor Sapienza.

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Chiunque sia curioso di conoscere come si organizza un’occupazione, dovrebbe visitare l’Hotel 4 Stelle nella zona della Collatina. Un grosso albergo di una catena internazionale, la Eurostars Nh, caduto in disgrazia qualche anno fa - con tanto di mobilità per tutti i dipendenti - è oggi un enorme complesso abitativo, con ben 260 famiglie: più di 600 persone, molti anziani e bambini. La gran parte sono migranti africani e sudamericani, ma c’è anche una rappresentanza del nostro Paese. Sulla strada hanno costruito una sorta di barricata, con dei muretti in cemento, in modo da restringere il passaggio: è una delle tante precauzioni anti-sgombero.

All’ingresso, passato il cortile dove giocano i ragazzini, si entra nella hall: dove prima c’era la reception, oggi c’è il cosiddetto “picchetto”. Cioè due o tre persone che a turno - giorno e notte - vigilano per la sicurezza di tutti, nell’illegalità.«La paura di venire cacciati è costante», ci dice Aida, 18 anni. Insieme a sua madre Zena, alla nonna, ai tre fratelli e al papà vivono in una delle suite del 4 Stelle: due stanze e un bagno, non saranno neanche 30 metri quadrati. Sono senegalesi. «I tecnici Acea ci hanno staccato l’acqua già due volte, ma noi l’abbiamo riallacciata». Per questo tipo di lavori c’è una squadra interna: chi nella vita fa il muratore o l’operaio presta la propria competenza in cambio di altri favori o a fronte di piccole somme, raccolte dall’assemblea degli occupanti. Lo stesso avviene per le pulizie: «Paghiamo cinque euro al mese e le facciamo a rotazione», spiega Zena. «È l’unico contributo economico che ci viene richiesto per abitare qui».
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A Roma, secondo i dati dell’Unione inquilini, ci sono circa 100 occupazioni collettive, dove vivono 4.500 famiglie. Si vanno a prendere edifici, soprattutto pubblici, ormai abbandonati, ex scuole o uffici: si dividono in piccole unità e si affidano a chi è iscritto agli sportelli delle associazioni e dei movimenti. Chi occupa spesso riqualifica: per questo il sindacato inquilini chiede che sia monitorato tutto il patrimonio pubblico delle città italiane, in modo da assegnarlo regolarmente al riuso.

Diverso è il caso di alloggi popolari occupati, e sottratti così a chi ne avrebbe diritto, come è avvenuto di recente con le case dell’Aler di Milano: nel capoluogo lombardo gli abusivi sono 4 mila, a Roma oltre 7 mila. A fronte di un bisogno abitativo altissimo: a Milano sono 23 mila le famiglie che attendono un alloggio popolare; a Roma, dove una graduatoria aggiornata non è stata ancora pubblicata, si stima siano circa 30 mila. Ben 700 mila sono gli iscritti in graduatoria in tutta Italia. Il paradosso è che 40 mila case popolari sono chiuse perché inutilizzabili in tutto il Paese, 9.700 nella sola Milano. Il decreto Lupi dispone che siano messe all’asta: le associazioni, al contrario, vogliono recuperare ciò che è abbandonato, assegnandolo poi a chi ne ha bisogno.
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Una volta che sei iscritto allo sportello dei movimenti, devi attendere che ti chiamino per prendere possesso di uno stabile: un sms dirà data e luogo dell’appuntamento, che non sarà mai davanti all’edificio stesso, per evitare possibili “soffiate”. Il corteo degli occupandi si muove tutto insieme, e arrivato sul posto si sfondano cancelli e porte. Inizialmente si dorme tutti assieme nei locali comuni, poi l’assemblea distribuisce i singoli spazi, e ciascuna famiglia si costruirà la sua piccola casa. Pareti in cartongesso, pittura dei locali, infine i mobili, fornelli e lavatrice, i vestiti e i libri.

La convivenza non è una passeggiata: spesso si litiga tra coinquilini, per le pulizie o la manutenzione. Alla scuola Hertz, nel Tuscolano, sgomberata a inizio anno, sono sorti dei contrasti tra una coppia gay italiana e alcuni immigrati musulmani: in questo caso a ricomporre le lacerazioni è l’assemblea, o un comitato eletto, più ristretto. «Bisogna rispettare le regole, accettare tutti e lavorare quando è richiesto», spiega Pina Vitale, storica attivista romana e anima di quell’occupazione.

«Occupare è una scelta impegnativa» dice Irene Di Noto, dei Blocchi precari metropolitani: «Si deve anche lavorare per quelli che ancora non hanno una casa», cioè fare militanza politica. L’uso dei social è fondamentale: con hashtag come #stopsfratti, gli attivisti twittano l’avviso di nuove manifestazioni o chiedono la solidarietà in caso di uno sfratto. «Venite tutti, c’è la polizia al Settimo municipio»: e così, creando dei veri e propri cordoni umani, si tenta di resistere le forze dell’ordine, chiamate a far rispettare la legge.
Case occupate

Leroy, architetto trentenne, si sta ristrutturando uno spazio dentro l’ex salumificio Fiorucci: il suo appartamento si trova proprio dietro il locale caldaia e accanto alla porta corre la piccola pista dove i maiali venivano avviati al macello. Erano gli anni Settanta, in quell’edificio c’era il sangue degli animali e le lotte sindacali degli operai. Oggi ci sono i panni stesi, le opere del Maam, i ragazzini con il pallone: «Nei condomini normali, dove l’unico spazio comune è l’androne, ci si scambia al massimo un saluto con i vicini», spiega Leroy: «Qui invece condividiamo tutto».

Un altro capitolo è quello degli studenti: vicino alla Sapienza, in uno dei quartieri più costosi di Roma, un gruppo di universitari ha occupato una palazzina liberty, di proprietà della Provincia. «Ci sono 150 mila iscritti negli atenei romani, 90 mila dei quali fuori sede», spiega uno degli abitanti del Degage. «Si costruiscono alloggi nell’ottica di pura speculazione, in periferie lontanissime e scomode, quando invece si potrebbero riadattare gli edifici in centro. Il mercato degli affitti agli studenti, spesso in nero, tiene alte le quotazioni di quartieri come San Lorenzo, creando un problema anche ai precari e agli anziani che non riescono a concorrere».

Ma non tutti se la passano bene: è il caso di un piccolo campo costruito all’uscita della fermata Ponte Mammolo della Metro B di Roma. È quasi invisibile dalla strada perché coperto dalla vegetazione: circa 200 persone, la maggior parte rifugiati politici eritrei ed etiopi, qualche russo, vivono in una condizione più che precaria. Baracche costruite in mezzo ai rifiuti, servizi igienici non allacciati alle fogne, la possibilità per i topi di scorrazzare ovunque: «Questo campo esiste dal 2001», spiega uno degli occupanti, «ma da allora poco è cambiato. Ogni tanto vengono i Medici senza frontiere, con un furgoncino, a darci l’assistenza sanitaria primaria».

In Italia, d’altronde, sempre più persone vivono ormai nella disperazione. Secondo il ministero degli Interni, delle 70 mila sentenze di sfratto emesse nel 2013, ben 65 mila sono per morosità. E le famiglie che non riescono a pagare l’affitto, dal 2008, anno di inizio della crisi, sono addirittura raddoppiate.