
Non è il solo. Negli ultimi anni l'agente infiltrato è diventato lo strumento segreto di contrasto al malaffare. Utilizzato in numerose operazioni. Per citare solo le più recenti e imporanti: il servizio centrale operativo della polizia, per esempio, collaborando con l'Fbi ha utilizzato un agente per colpire al cuore i narcos della 'ndrangheta a New York. E la finanza ha utilizzato lo stesso metodo per bloccare un gruppo di iraniani legati agli apparti della repubblica islamica che in Italia cercavano elicotteri da spedire in patria violando così le regole dell'embargo. Insomma, l'undercover ha assunto un ruolo sempre più centrale nelle indagini complesse, dove per smascherare il crimine è necessario farne parte.
«Donnie, i bravi ragazzi non tengono mai i soldi nel portafoglio», è uno dei primi insegnamenti che Donnie Brasco riceve dal mafioso con cui stringe amicizia e che lo condurrà nei segreti delle cinque famiglie mafiose newyorkesi. «Può sembrare una banalità ma la prima cosa che faccio prima di iniziare un'operazione è cambiare portafoglio», racconta a “l'Espresso” l'agente K, «non posso rischiare che mi cada dalla tasca un bigliettino dal quale è possibile risalire alla vera identità. Equivarebbe a una condanna a morte. E anche per i pagamenti utilizzo solo contanti, non abbiamo una carta di credito con il nome falso».
La vita sottocopertura è una prova di equilibrismo. Il rischio di cadere dal sottile filo sul quale si cammina è altissimo. La maschera che ha permesso di conquistare la fiducia dei capi e dei gregari dell'organizzazione criminale diventa la prima pelle dell'agente. L'esistenza degli infiltrati è un groviglio di facce, identità, paure, adrenalina,solitudine e senso delle istituzioni. «Siamo addestrati per convivere con il nemico che per mestiere dobbiamo combattere».
Il suo primo incarico è stato in Sicilia. Qui ha conosciuto dall'interno Cosa nostra: «Sono riuscito a convincere i boss a fidarsi totalmente di me. Entri dentro le loro case, vedi i loro bambini e le loro famiglie. E capisci che hanno debolezze come tutti noi». Poi c'è la quotidianetà dell'infiltrato: «Ti rapporti con una persona che fa azioni criminali, ma tu entri da amico e non da nemico. Devi stare attento alle regole che ti vengono date ed è importante imparare e interpretare la gestualità del mafioso. Se entravamo in un locale, per esempio, la prima persona che veniva salutata era la persona a cui andava portato rispetto. Altra regola, la curiosità va bandita. Nel momento in cui poni una domanda sbagliata nasce una tensione che devi essere bravo a gestire».
Il primo contatto con la cosca si concretizza solo dopo un lungo lavoro di intelligence. È dall'ascolto delle intercettazioni, infatti, che gli investigatori intuiscono che i boss sono alla ricerca di una figura esterna per portare a termine un affare. A questo punto il capo dell'operazione decide di paracadutare sul campo l'agente K che può indossare gli abiti dell'uomo d'affari, del broker, dell'imprenditore. In poco tempo l'undercover avvicina l'anello più esposto del clan. E lo intrappola, prospettandogli guadagni eccellenti e un servizio a prova di indagine. «Non si arriva mai all'affiliazione. Ti proponi come l'uomo giusto al momento giusto. Come dire: se tutti hanno bisogno del pane, io sono il fornaio...e devo fare in modo che lo comprino da me».
L'agente K ha vissuto gli anni del maxi processo, ha conosciuto Giovanni Falcone con il quale condividevano lo stesso ristorante e la stessa passione per un dolce che facevano solo in quella trattoria di Palermo. Ha assistito alla mutazione genetica delle mafie, dal piombo alle mazzette. «Ho visto girare moltissimi soldi, che per i boss sono un simbolo come un altro del potere conquistato». Nella sua carriera ha messo le mani nel marcio. Ha trattato partite di cocaina e si è messo a disposizione per trasportare i quattrini all'estero. «In questo settore la 'ndrangheta è leader ed è quella più difficile da infiltrare» spiega.
Nel lavoro dell'agente sottocopertura la solitudine è un fattore costante. Un isolamento intimo, privato. «È logorante trascorrere il tempo da solo. Ti tieni impegnato trascrivendo i particolari raccolti con o senza registratori incollati sulla pelle. Ma non siamo superuomini, dietro di noi c'è una squadra che ci supporta tutto il giorno. Senza questo team non esisterebbe l'undercover».
Nella vita che scorre parallela non c'è una casa accogliente ad attenderti e una compagna con la quale condividere lo sconforto. «Devi spingerti al limite. Il sospetto invade le giornate. E nella vita, inclusi i social network, è una rinuncia continua. Non dormi sereno perché sai che da un momento all'altro l'organizzazione può chiamare e devi metterti a disposizione». E quando il telefono squilla, il finanziere senza nome indosserà di nuovo la maschera. Pronto a ripartire con la sua falsa identità. Dimenticando per qualche ora, giorno o mese, chi è davvero.