Spuntano i derivati fatti dal Tesoro italiano con l'istituto di credito. Tutti in perdita. Con tanto di beffa: un contratto del 2004 è stato ristrutturato più volte con nuove clausole capestro
In questi anni segnati dalla crisi
lo Stato italiano ha perso una cifra superiore a tre miliardi di euro in una serie di scommesse finanziarie ad altissimo rischio effettuate con Deutsche Bank. È la conclusione che si può trarre dall’esame di una serie di contratti finanziari con caratteristiche molto particolari, chiamati in gergo derivati, stipulati fra i nostri governi e il colosso bancario tedesco a partire dal maggio 2004. Accordi riservatissimi, più volte modificati almeno fino al 2015 e tuttora in vigore, ma finora mai pubblicati. Fanno parte di quel complesso di contratti derivati che da anni sono al centro di aspre polemiche proprio per l’entità delle perdite subite dall’Italia. E per la segretezza che li circonda.
Di recente due dirigenti del ministero dell’Economia e due ex ministri, Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli, che respingono ogni accusa, si sono visti addebitare dalla procura della Corte dei Conti di aver causato danni miliardari alle casse pubbliche attraverso alcuni derivati siglati a suo tempo con un’altra grande banca, l’americana Morgan Stanley, che all’inizio del 2012 passò all’incasso facendosi versare dall’Italia ben 3,1 miliardi di euro. Tranne questa eccezione, tutti gli altri contratti sono rimasti top secret. Nonostante le richieste di trasparenza arrivate anche dal parlamento, che vi ha dedicato in tempi recenti un’indagine conoscitiva, nessun governo ha infatti mai rivelato i nomi delle altre banche interessate e i contenuti dei contratti, trincerandosi dietro necessità di riservatezza.
Ora L’Espresso è in grado di svelarne un nuovo blocco, raccontando la genesi di
una serie di accordi siglati a partire dal 2004 con Deutsche Bank. Contratti che, secondo gli esperti interpellati, rischiano di costare all’Italia più di tre miliardi di euro: la stessa somma che nel caso di Morgan Stanley fece gridare allo scandalo. Si tratta senza dubbio di numeri pesanti. Basti pensare che, per l’intero piano nazionale di ristrutturazione e messa in sicurezza delle scuole pubbliche, il governo italiano ha stanziato per il prossimo triennio circa 1,7 miliardi.
I derivati sono contratti complicatissimi che, se ben fatti, funzionano come una polizza di assicurazione. Il Tesoro ha sempre sostenuto di averli sottoscritti proprio per coprire l’Italia dai rischi finanziari. Il nostro Paese, che ha un enorme debito pubblico, corre pericoli gravissimi in caso di rialzo dei tassi d’interesse: quando crescono troppo, siamo rovinati. Di qui l’idea di assicurare le casse pubbliche con i derivati. Se i tassi superano un livello da allarme rosso, ad esempio il 5 per cento e rotti (come era previsto nel primo contratto del 2004 con Deutsche Bank, spiegato nella figura della pagina a destra), la differenza deve sborsarla la banca. Se invece gli interessi calano o crollano, lo Stato deve pagare comunque il 5 per cento e a guadagnarci è la banca.
Qui c’è il primo punto delicato: questo tipo di contratto derivato (chiamato “swap”, cioè scambio di tassi d’interesse: lo Stato paga un fisso e riceve un variabile) a detta di molti esperti
assomiglia più a una scommessa che a una polizza assicurativa. Quando assicuriamo la nostra automobile, ad esempio, paghiamo un prezzo determinato e certo fin dall’inizio: in cambio, è la compagnia che si accolla il rischio di dover pagare il conto in caso di incidenti. Con questi “swap”, invece, il costo è incerto e il rischio resta distribuito tra le due parti: se i tassi vanno nella direzione opposta rispetto a quella su cui si è puntato, le perdite possono arrivare a cifre astronomiche. Quindi i derivati in questione assomigliano più a una scommessa finanziaria su come si muoveranno i tassi futuri. Una scommessa che, nel caso di Deutsche Bank, si è rivelata
disastrosa per lo Stato italiano.
L’Espresso ha potuto esaminare, in particolare, le caratteristiche dei
derivati stipulati con l’istituto tedesco dal 2004 fino al 2015. Si tratta, per la precisione, dello swap originario e di sei contratti di ristrutturazione, che via via modificano gli accordi iniziali, fino a stravolgerli. I cambiamenti sono sostanziali. Il primo derivato legava il Tesoro e la banca per un periodo di tempo molto lungo, fino al 2034. In seguito questo termine è stato prima abbreviato radicalmente, fino al 2017, ma poi riallungato, questa volta fino al 2023. Con queste modifiche sono state introdotte nel tempo anche delle opzioni, esercitabili sempre e soltanto da Deutsche Bank: è la banca a poter decidere a suo piacimento di allungare la durata dei contratti o di aumentare il valore assoluto dei pagamenti. Una clausola che solleva una questione cruciale:
perché il Tesoro, guidato in tutto questo arco di tempo dalla responsabile della direzione debito pubblico Maria Cannata, che aveva la specifica competenza sui derivati, ha accettato contratti così favorevoli al colosso tedesco? E che posizione hanno tenuto i tre direttori generali che si sono succeduti con i diversi governi? Si tratta degli stessi Siniscalco e Grilli, poi promossi ministri, seguiti infine da Vincenzo La Via.
Per valutare gli effetti di questi contratti,
L’Espresso li ha sottoposti a una docente di fama internazionale: Rita D’Ecclesia, che insegna Finanza Quantitativa alla Sapienza di Roma e alla Birkbeck University di Londra. La sua premessa è che calcoli troppo precisi sono impossibili, perché servirebbero informazioni che nei contratti non vengono fornite, come l’esatto momento dell’esecuzione: «Anche uno spostamento di qualche ora può modificare la reale quantificazione dei flussi d’interessi da corrispondere fra le due parti». Detto questo, l’esperta di matematica finanziaria calcola che, fra il primo contratto del 2004 e l’ultimo accordo conosciuto della primavera del 2015 (quando Deutsche Bank comunicò al governo italiano l’esercizio di un’opzione, che permetteva alla banca di accendere un ulteriore contratto, con scadenza 15 ottobre 2017), questi derivati si siano
tradotti in un vero salasso per lo Stato. L’esborso netto è stimabile, solo per questo periodo, «in una cifra compresa fra 1,1 e 1,3 miliardi di euro».
E poi? Che cosa è accaduto dal 2015 a oggi, e che cosa succederà da qui al 2023, quando matureranno le ultime scadenze dei contratti esaminati? I dati disponibili, fermi appunto a tre anni fa, permettono agli esperti di quantificare ulteriori pagamenti molto ingenti. Gli addetti ai lavori utilizzano un indicatore tecnico, chiamato in gergo “mark to market”. Quello dei derivati con Deutsche Bank, alla data dell’ultimo contratto (aprile 2015) risultava negativo, per l’Italia, per 2 miliardi e 250 milioni. Insomma, tra i versamenti già effettuati fino al 2015 e quelli prevedibili per i prossimi anni, non c’è il rischio di sbagliare troppo se si afferma, come spiega la professoressa D’Ecclesia, che «il costo netto a carico dello Stato sia valutabile complessivamente in oltre tre miliardi».
Questa stima è valida, ovviamente, solo a condizioni che i contratti, dopo il 2015, non siano stati ulteriormente modificati (in peggio o in meglio) con altre clausole riservate, come già avvenuto in passato. Questo è un punto importante. A saltare agli occhi, infatti, è proprio
il progressivo stravolgimento delle condizioni contrattuali. L’accordo iniziale del 2004, stando alle valutazioni tecniche, non era così squilibrato. L’Italia aveva addirittura qualche probabilità in più di vincere la scommessa rispetto a Deutsche Bank: 54 per cento, contro 46. Ma la posta in gioco era sbilanciata dall’inizio. Nella media dei casi prevedibili, infatti, lo Stato italiano avrebbe potuto incassare 360 milioni, mentre l’istituto tedesco, in caso di vittoria, poteva sperare fin dall’inizio in profitti più elevati: circa 460 milioni. Nella realtà, però, l’evoluzione effettiva dei tassi d’interesse ha subito dato torto al Tesoro, che ha iniziato a perdere soldi fin dalle prime scadenze, pagando ogni sei mesi pesanti interessi. C’è solo un momento in cui la situazione migliora: nel primo semestre 2009 i tassi risalgono fino al livello che permette allo Stato di non rimetterci troppo. Ma proprio allora il governo italiano accetta di varare la prima ristrutturazione.
Non sarà l’unica modifica delle condizioni contrattuali: dal 2010 al 2014 ne seguiranno altre cinque, al ritmo di una l’anno. I risultati sono sempre più negativi per l’Italia. E
sempre più vantaggiosi per Deutsche Bank. Tra il 2010 e il 2012, stando alle valutazioni effettuate da Rita D’Ecclesia sulla base delle informazioni disponibili, la banca tedesca riesce ad azzerare ogni rischio di perdere la scommessa con lo Stato. Una strategia del tutto logica, dal punto di vista dell’istituto di Francoforte. Più difficile spiegare il perché di queste scelte per il Tesoro e per i governi dell’epoca. L’unica risposta che si può ricavare dai dati disponibili è preoccupante: con quelle modifiche, il ministero ha ottenuto uno sconto sugli interessi da pagare nell’anno in corso, ma ha aggravato il debito totale, da versare alla scadenza finale. Invece di disinnescare la bomba dei derivati, si è allungata la miccia, aggiungendo altri carichi di esplosivo. Fino ai tre miliardi in scadenza entro il 2023.
Deutsche Bank è lo stesso istituto che, per tutt’altri motivi, è finito
al centro di un’inchiesta giudiziaria che riguarda una massiccia operazione sui titoli di Stato italiani avvenuta nel 2011. Tra il primo gennaio e il 30 giugno di quell’anno la banca tedesca aveva ridotto la propria esposizione sui titoli del debito pubblico italiano, tagliandola da 8 miliardi a soli 996 milioni di euro. L’istituto di Francoforte lo comunicò al mercato il 26 luglio 2011: un annuncio che contribuì ad alimentare la crisi di fiducia nell’Italia. Nei giorni successivi lo spread (cioè la differenza tra i tassi d’interesse italiani e quelli tedeschi) superò per la prima volta la soglia dei 300 punti base. Nel corso di un’indagine per manipolazione di mercato iniziata dai magistrati di Trani e poi trasferita a Milano, è emerso ora un retroscena rimasto per anni inedito: quello stesso 26 luglio 2011 - cioè quando Deutsche Bank sembrava annunciare la fuga dall’Italia, pubblicando i dati di bilancio del 30 giugno precedente - il gruppo tedesco aveva in realtà già ricomprato una grossa quota di titoli italiani.
Questa notizia giudiziaria, pubblicata nel dicembre scorso dall’Espresso, è stata utilizzata da importanti esponenti del centro-destra per suffragare la teoria di un complotto tedesco contro il terzo governo di Silvio Berlusconi. Che nell’autunno 2011 fu sostituito da Mario Monti, quando lo spread aveva ormai scavalcato anche la soglia dei 500 punti. L’ex ministro Renato Brunetta ha parlato addirittura di «colpo di Stato».
La teoria del complotto, però, sembra appartenere alla campagna elettorale, più che alla realtà economica. Il capo di Deutsche Bank in Italia, Flavio Valeri, di fronte alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, ha ricordato che tra gli azionisti della banca di Francoforte il governo tedesco non c’è. I primi tre soci erano nel 2011 (e sono ancora oggi) investitori internazionali: cinesi, americani e qatarioti. Difficile ipotizzare un complotto politico con mandanti così variegati. Più probabile che i vertici dell’epoca di Deutsche Bank (poi rimossi) seguissero la logica della finanza di ogni latitudine: e cioè quella di massimizzare i profitti.
La teoria del complotto si scontra anche con altri dati di fatto, documentati proprio dai derivati di Deutsche Bank ora svelati dall’Espresso. Il primo contratto,
l’accordo-base che apre la strada a tutti gli altri, viene infatti siglato il 17 maggio 2004. Quando il capo del governo italiano era Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti ricopriva il ruolo di ministro dell’Economia. Ma non basta. Le prime tre decisive ristrutturazioni sono datate luglio 2009, novembre 2010, giugno 2011. Chi era il premier? Ancora Berlusconi. E il ministro dell’Economia? Tremonti. A questo punto resterebbe da capire perché mai Deutsche Bank avrebbe dovuto tramare proprio contro il governo che le aveva appena regalato quei contratti d’oro.