Il governo accontenta tutti, da Colao a Gelmini. Arrivano i dirigenti dell’amministrazione del futuro con chiamate dirette e percorsi agevolati. Mentre si approvano norme in silenzio che, casualmente, aiutano gli amici

Troppo concentrati sui miracoli si perdono di vista i giochi di prestigio nel governo di Mario Draghi. I favori ai ministri, i soccorsi agli amici, i premi ai capricciosi disseminati nelle norme del piano nazionale di ripresa e resilienza, il già familiare “Pnrr” con i suoi 221 miliardi di euro di risorse e prestiti europei. I progetti sono in ritardo, ma i ministri e i partiti hanno già centrato gli obiettivi. I loro obiettivi. Un classico, si perdoni la banalità. Più poltrone, più potere.

 

LO STATO ESTERNALIZZATO
Renato Brunetta è il ministro più anziano, il camerlengo del Consiglio dei ministri, ne sarebbe il tutore e il gerente se Draghi traslocasse al Quirinale. Questa ipotetica condizione e il dicastero di cui è titolare, la Funzione Pubblica, lo rendono già un vice di Draghi. Perciò Brunetta ha fatto, sfatto e rifatto le regole per forgiare l’amministrazione pubblica del futuro e nel farlo ha martoriato la legge 165 del 2001.

 

I giovani da reclutare per il Pnrr sono individuati attraverso l’apposito portale ministeriale dove alloggiano i bandi e si avanza per titoli. I dirigenti generali o di secondo livello, quelli che comandano, quelli che agognano, invece, si prendono a piacere. Le amministrazioni “impegnate” (parola che indica una vastità di posti, che la politica ha preferito a locuzioni più stringenti) nell’attuazione del Pnrr possono assumere per 3 o 5 anni dirigenti esterni o provenienti da altre strutture pubbliche con limiti ridotti o senza limiti. In passato ai dirigenti esterni era riservato il 10 per cento massimo degli organici, Brunetta ha raddoppiato la quota; ai dirigenti di altre strutture si applicava il tetto del 15 per cento massimo degli organici, Brunetta ha soppresso la quota.

 

Manovra: Brunetta, su Rdc era stato già tutto deciso in cdm

Allo scadere del Pnrr, fissato al 31 dicembre 2026, si approntano concorsi protetti per trasformare i contratti da tempo determinato a tempo indeterminato dei dirigenti esterni o di altre strutture che abbiano maturato almeno tre anni di impiego. Quelli di altre strutture, postilla essenziale, non devono sottoporsi a rigorose selezioni, ma devono superare una «valutazione delle capacità, attitudini e motivazioni individuali». «Prove scritte e orali di esclusivo carattere esperienziale», chiosano i servizi studi di Camera e Senato che hanno commentato il decreto legge. Una formalità. Vabbè, lo fanno per sveltire l’intorpidita Italia. Al contrario. Questo inchioda l’Italia di domani alle scelte arbitrarie di Brunetta e colleghi di oggi. Un ministero o un dipartimento di Palazzo Chigi, per esempio, può ingaggiare dirigenti esterni e promuovere dirigenti locali con assoluta discrezione e lì lasciarli per gli anni a venire. Intoccabili.

 

Per aumentare l’apporto degli esterni, in deroga al su citato 20 per cento, Brunetta coinvolge i cacciatori di teste, società private, spesso multinazionali, che alle amministrazioni propongono dirigenti affini o comunque non estranei, non vagliati dai fastidiosi concorsi, ma soltanto esaminati da una commissione a sua volta, ovvio, esterna. Così lo Stato si fa azienda.

 

Il dossier
Nessun chiaro obiettivo, numeri che non tornano, progetti vecchi: tutti i buchi del Pnrr
19/11/2021

Per gli speleologi dei commi si devono consultare gli articoli 1 e 3 del decreto legge numero 80 varato l’8 giugno dal governo e convertito in legge il 5 agosto dalla Camera. Però un emendamento affiorato in Parlamento tra le aule sonnecchianti di agosto sfida la capacità cognitiva del miglior giurista, si tratta del comma 6 bis dell’articolo 7: «La facoltà di cui all'art. 5-bis, comma 2, del decreto-legge 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2020, n. 8, può essere esercitata anche dai dirigenti medici di ruolo presso i presidi sanitari delle amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165». Questo guazzabuglio di rimandi, appoggiato dagli uffici di Brunetta, ha strappato alla pensione la dottoressa Brunella Vercelli, capo del presidio medico di Palazzo Chigi, stipendio di 217.000 euro, medico generico caro al ministro di Forza Italia e a diversi ex presidenti del Consiglio.

 

La legge varata lo scorso anno per l’emergenza pandemica, che dà facoltà ai dirigenti medici del sistema sanitario nazionale in prima linea contro il Covid-19 di rinviare la pensione da 65 a 70 anni, agli inizi di agosto è stata estesa ai (pochissimi) dirigenti dei (pochissimi) presidi sanitari dell’amministrazione pubblica. Ne beneficia la dottoressa Vercelli, che casualmente ha appena compiuto 65 anni e secondo le vecchie regole doveva congedarsi a novembre.

 

IL MINISTRO APOLIDE
Vittorio Colao è indubbiamente un ministro tecnico. Ne è sconosciuta l’origine e la traiettoria politica. Fu arruolato dal governo di Giuseppe Conte non per volontà di Giuseppe Conte e, di sponda col Quirinale, Draghi l’ha cooptato per l’Innovazione. La cosiddetta transizione digitale. Colao ha a disposizione almeno 12,85 miliardi di euro sui 191 di Pnrr (si arriva a 221 con i fondi complementari). Si è calato negli assetti istituzionali con collaboratori di ampie e varie formazioni: Stefano Firpo, il capo di gabinetto, arrivò al ministero per lo Sviluppo Economico da Banca Intesa assieme al ministro Corrado Passera; Valentina Colucci, il capo della segreteria, è rientrata nei ministeri da un paio di anni dopo un’escursione nel modo della lobby con la Sec.

 

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Per un decennio amministratore delegato di Vodafone e tante altre cose, Colao è un uomo pratico. Fa ciò che conosce. Si affida a chi conosce. Durante la stesura del piano nazionale di ripresa e resilienza si è fatto assistere dai consulenti di McKinsey, metodi di lavoro che ha interpretato e in qualche modo indirizzato quand’era al vertice della sede di Milano. Adesso convoca al ministero ex dirigenti di Vodafone. Stefano Parisse, attuale componente del cda di “Che banca!” del gruppo Mediobanca, ha firmato un accordo semestrale per 110.000 euro. Stessa cifra però durata doppia per Daniela Mauri, ex responsabile vendite in Italia di Vodafone.

 

Colao ha bisogno di esperti. Allora il governo fornisce il necessario per allestirgli un contingente di 338 unità misto fra esperti dirigenti e personale non dirigenziale. Il decreto legge licenziato da Palazzo Chigi imponeva una «procedura selettiva con avviso pubblico», dicitura poi espunta al Senato. Colao potrà collocare con maggiore agilità il denaro stanziato per il suo contingente: 140 milioni di euro da qui al 2026 più 15 milioni per il «funzionamento».

 

COSTOSI RISARCIMENTI
Mariastella Gelmini ha protestato a lungo, neppure tanto a lungo, alla fine i soldi, che ci sono, li hanno trovati. Il suo ministero per gli Affari Regionali ha un progetto da 135 milioni di euro per il Pnrr, spiccioli, rimasugli, coreografie, e però ha preteso una manciata di esperti, una armata ridotta, un battaglione ristretto, se non proprio il contingente, che suona austero e pomposo, assegnato a Colao. E poi, altro motivo di risentimento, i ministeri con portafoglio e più di un ministero senza portafoglio, inclusi i colleghi di partito Brunetta e Mara Carfagna (Sud), sono supportati da un’unità di missione per il Pnrr con schiere di dirigenti (1 di prima e 3 di seconda fascia) e furerie stracolme di esperti. Il decreto legge 152 del 6 novembre (articolo 33) ha reperito per Gelmini un bel drappello di 23 dipendenti di cui un dirigente generale e una coppia di caratura non generale. Per le «finalità del presente comma», come si dice in burocratese, il governo ha autorizzato una spesa complessiva di 6,7 milioni totali da subito al 2026. Siccome 23 sono pochi e pure dispari, al ministro Gelmini, che adesso non può lagnarsi, viene affiancato anche un nucleo di generici esperti: incarichi da 50.000 euro, altri 1,5 milioni di euro. Al ministero degli Affari regionali si spendono più di 8 milioni di euro per un progetto Pnrr di 135.

 

++ Gelmini, niente nuove restrizioni al momento ma valuteremo ++

Il dipartimento della Ragioneria generale del ministero del Tesoro, che ha il compito di rendicontare e monitorare l’esecuzione del Pnrr, per il suo nucleo di generici esperti dispone di 2,6 milioni di euro contro 1,5 di Gelmini. Sproporzioni. C’è un trucco, però: un altro fondo che vale circa 160 esperti all’anno con la retribuzione di 50.000 euro. Lo detiene il ministero del Tesoro, pesa 42,6 milioni da qui al 2026, e sarà ripartito tra i ministri con un decreto del presidente del Consiglio. Draghi fa le fette. Gelmini, per favore, giù la mano. Niente bis.

 

FANTASIA RESILIENTE
Il Pnrr ha rimosso la pazienza. Si va di fretta con abbondanza di speranze e denaro, forse di illusioni. La cultura è in cima alle priorità, un pilastro, dopo i trasporti, dopo l’ecologia, dopo il digitale, ma sta in alto anche se i rapporti fra il ministro Dario Franceschini e il premier Mario Draghi sono precipitati in basso. A metà aprile Franceschini ha compiuto un gesto di grande autorevolezza. Ha individuato subito in Lorenza Bonaccorsi, suo ex sottosegretario alla Cultura e ancora esponente dem della sua corrente, l’interlocutore principale per il Pnrr con gli altri ministeri e la presidenza del Consiglio. Dopo due mesi dalla caduta del governo Conte e di sostanziale inoperosità, Bonaccorsi è tornata al dicastero, per 72.000 euro all’anno, come consigliere del ministro Franceschini proprio e unicamente per il Pnrr. Purtroppo, Bonaccorsi ha svolto la sua preziosa mansione per un solo semestre poiché ha vinto, un mese fa, il ballottaggio per la presidenza del Municipio I di Roma. C’è l’angosciante timore che Franceschini non riesca a rimediare a questa mancanza con la fretta che si richiede per ogni decisione sul Pnrr.

 

Per agevolare l’entrata e l’uscita dalle amministrazioni, per addensare la nebbia fra pubblico e privato e fra controllori e controllati tanto da renderli indistinguibili, a tale scopo, quindi, il governo ha elaborato e approvato una norma nel decreto 152 di novembre. Difesa servizi spa, società del ministero della Difesa, sarà la centrale acquisti per il Cloud Italia e il governo ha pensato a una carineria: chi ha contratti con Difesa servizi in essere o li avrà sino al 2026 non dovrà più attendere 3 anni bensì 2 per spostarsi in una società privata del settore, che magari in precedenza ha ricevuto abbondanti commesse dalla Difesa. Non se ne sentiva l’urgenza, ma la norma può far comodo. Per esempio all’amministratore delegato (ad) Fausto Recchia, molto legato all’ex ministro Roberta Pinotti che l’ha nominato due volte, una suo capo della segreteria e una ad di Difesa servizi. Recchia non avrà dimenticato il fallito passaggio a Leonardo.

 

Chiari gli esiti del voto del marzo 2018 e dunque la fine del lungo mandato di Pinotti, nel mentre la politica si accordava sulle alleanze, stava per diventare direttore degli affari istituzionali di Leonardo (ex Finmeccanica), la società a partecipazione pubblica che si occupa di aerospazio, armamenti, sistemi di Difesa e che è fornitore di Difesa servizi. Il meticoloso atterraggio a Leonardo dell’avvocato Recchia fu bloccato dall’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone che nel suo parere si richiamò alle leggi ora smontate da Brunetta. Con una rapida ritirata delle sue ambizioni, nella concitata primavera del 2018, Recchia riprese la funzione di ad di Difesa servizi, che ancora mantiene nonostante l’atroce delusione. Però il governo ha ridato speranza ai Recchia che si sentono angustiati nel pubblico e sognano di fuggire presto nel privato. Due anni di attesa, non più tre. Il Pnrr è una promessa per l’Italia. Per gli altri è già un successo.