Inchiesta
Nucleare, repulisti alla Sogin: quattro dirigenti licenziati per spese ingiustificate e appalti senza gara
Colpito il top management della società statale a rischio commissariamento. Intanto la Procura di Roma indaga e il vertice aziendale è sempre in cerca del sito per il deposito nazionale delle scorie radioattive
Nell’inglese dei manager lo hanno chiamato self cleaning. La traduzione in italiano antico è repulisti. Significa: fuori dalla Sogin le mele marce, vere o presunte, come unica strada per evitare il commissariamento. È questo lo scambio di fatto fra Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica, ed Emanuele Fontani, amministratore delegato della Sogin, la società statale incaricata del decommissioning nucleare e di individuare il sito per il deposito nazionale dei rifiuti nocivi accumulati durante la parentesi italiana nell’energia atomica, più i nuovi prodotti da varie attività, in primo luogo ospedaliera.
La scure del licenziamento si è abbattuta su quattro dirigenti apicali. Sono Luca Cittadini, prima direttore corporate e poi responsabile finanza e amministrazione di Sogin, oltre che ad della controllata Nucleco dal giugno 2021, Fabio Chiaravalli, direttore del deposito nazionale, Federico Colosi, a capo delle relazioni esterne, e Mariano Scocco, che dirigeva il comparto affari legali. Sono quattro figure chiave, riporti diretti del capo azienda. Per la scrivania di Cittadini sono passate fatture e pagamenti di anni di lavori e la sua nomina alla guida della Nucleco nove mesi fa segnala un buon rapporto con la dirigenza attuale, quanto meno fino alla caduta in disgrazia e alla sostituzione con Marco Pagano, ex Ernest & Young, poi impegnato nella direzione affari internazionali di Sogin che si occupa anche di decommissioning all’estero.
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Chiaravalli, manager esperto entrato in azienda nel 2001, due anni dopo lo spinoff della società dall’Enel voluto dal ministro dell’Industria Pierluigi Bersani, stava seguendo il deposito nazionale che è l’obiettivo principale dell’azienda controllata dal Tesoro. Un obiettivo alquanto contrastato dalla diffusa opposizione di enti locali, associazioni territoriali, comitati di cittadini pronti a ricorsi e azioni giudiziarie sulle quali vegliava Scocco. Infine Colosi era il lobbista dell’azienda che, nel corso della sua attività e del cambio delle legislature, ha sempre dovuto curare il rapporto con politici, consulenti segnalati dai politici, collaboratori segnalati dai consulenti dei politici, per allargare il consenso a un’operatività insoddisfacente ma ben pagata dal prelievo su milioni di bollette dell’elettricità.
L’epurazione di queste settimane, anticipata in gennaio da lespresso.it, ha permesso a Cingolani di temporeggiare sulla sua intenzione di azzerare il management della società romana di via Marsala. Per il ministro laureato in fisica sono tempi difficili. Da un lato è impegnato sul fronte della crisi energetica con la Russia che, con effetto matrioska, contiene le ipotesi di ripresa del nucleare e, in ultima analisi, la crisi della stessa Sogin. Dall’altro, non è detto ci siano le basi giuridiche per il commissariamento. Per adesso nella vicenda ultraventennale dell’azienda di Stato c’è un solo precedente di questo tipo. Era il luglio del 2009, quando Claudio Scajola, ministro dello sviluppo economico del governo Berlusconi III, allontanò l’ad di nomina prodiana Massimo Romano. Dopo una due diligence priva di esiti affidata a uno studio legale romano, il ministro forzista ricorse a una legge primaria approvata dal Parlamento, una modalità che l’opposizione giudicò forzata.
Per evitare di impelagarsi nelle sottigliezze del diritto, si è preferito licenziare e minimizzare il problema nei limiti di un contenzioso fra azienda e dipendenti, anche se Cittadini e Chiaravalli erano i dirigenti più pagati dell’azienda con 180 mila euro annui a testa.
Sogin, che L’Espresso ha interpellato attraverso domande scritte, ha concluso l’operazione self cleaning nei giorni scorsi ma l’inchiesta della magistratura continua. Le cifre in ballo sono rilevanti. Le malversazioni sulle quali indaga la procura di Roma si aggirano sui 40-45 milioni di euro di valore e avrebbero avuto luogo, secondo fonti ufficiali della società, fra il 2010 e il 2020 in settori «non coinvolti direttamente nelle attività di dismissione degli impianti nucleari».
È un periodo molto ampio che copre varie stagioni della politica. Il decennio coincide solo in parte con la gestione finita nel mirino in un primo tempo, quella di Giuseppe Zollino, presidente, e dell’ad Riccardo Casale, nominati nel settembre 2013 da Fabrizio Saccomanni, ministro delle Finanze del governo guidato da Enrico Letta, attuale segretario del Pd. La coppia Zollino-Casale è scoppiata alla fine del 2015, quando Casale ha annunciato il suo desiderio di dimettersi in polemica con i comportamenti «privi di senso istituzionale» di Zollino. I due sono stati sostituiti da Marco Enrico Ricotti e Luca Desiata nel triennio 2016-2019.
I conti non tornano in alcuni appalti, in lavori con affidamenti al di sotto della soglia di gara, nelle spese per trasferta di alcuni dirigenti e in una faraonica campagna stampa da 22,8 milioni di euro di budget lanciata nel 2015. Anche se pochi hanno memoria della propaganda Sogin, a parte forse un colossale cartellone affisso nei pressi della sede accanto alla stazione Termini, il saldo a consuntivo per il solo primo anno ammontava a 5,2 milioni di euro, secondo la relazione di Ernst & Young consegnata a giugno 2020 su disposizione di Fontani e del presidente Luigi Perri, ex dirigente della savonese Demont, che con l’ad ha in comune una lunga esperienza lavorativa nel decommissioning in Slovacchia.
La campagna di informazione era mirata a sostenere il lancio della Cnapi, la carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito dei rifiuti, che ha iniziato la sua avventura nel giugno 2014 per un lungo viaggio concluso quasi otto anni dopo. Nello scorso mese di marzo dalla Cnapi è stata selezionata la Cnai (carta nazionale delle aree idonee), che Sogin ha messo a disposizione di Cingolani. La nuova mappa è protetta dal segreto e non sarà pubblica finché il Mite non la farà validare dall’Isin, l’ente di controllo, con il parere aggiuntivo del ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili, guidato da Enrico Giovannini.
Sembra molto complicato e lo è, come del resto tutta la vicenda di una società che, ironia della sorte, fino alla fine del 2021 annunciava il suo impegno nella trasparenza per bocca di Chiaravalli, uno dei dirigenti licenziati.
Ma le irregolarità segnalate da Ernst & Young, che ha passato al setaccio 518 documenti, sono una parte del buco nero. Dopo una serie di perquisizioni, la Guardia di finanza ha occupato in forze la sede della Sogin durante lo scorso periodo natalizio in cerca dei giustificativi cartacei o digitali dei lavori eseguiti e addebitati sul bilancio. Incredibile a dirsi, parte dei documenti è sparita senza lasciare traccia. Un ruolo importante nel controllo della gestione aziendale è stato svolto dall’Arera, l’autorità di regolazione per l’energia, le reti e l’ambiente, che si è avvalsa di segnalazioni provenienti dall’interno dell’azienda.
Nello stesso tempo, Sogin è finita nel mirino delle interrogazioni parlamentari del centrodestra, con il deputato Fdi Edmondo Cirielli e con il senatore sottosegretario alle Politiche agricole Francesco Battistoni, eletto con Forza Italia nel collegio di Viterbo, in Tuscia, l’area di massima concentrazione delle aree potenzialmente idonee al deposito nazionale.
Possono essere considerati attacchi di parte che puntano vecchie gestioni per defenestrare quella attuale, nominata alla guida della società in tempi di governo giallo-rosa. Ma la nomina firmata dal governo Conte bis non ha risparmiato a Fontani gli attacchi targati M5S, con Elio Lannutti e Nicola Morra in prima fila, che criticano le spese per trasferte dell’ad e i suoi rapporti con lo studio Morandini, attivo in Italia e a Bratislava.
In una situazione del genere, è ovvio che cresca la fronda interna da parte dei manager a rischio di epurazione. Vincenti e perdenti si conoscono troppo bene, perché in Sogin non c’è stato mai un vero ricambio. Fontani ha 49 anni ma è in Sogin da quattordici e prima era in Enel. Gli intrecci fra le competenze di Isin, di Arera, dei ministeri che cambiano nome e ruolo secondo i governi, hanno favorito le stratificazioni delle varie epoche politiche ma non hanno certo facilitato l’accelerazione dei lavori. Per i dati basta affidarsi alla Sogin stessa. Dal 1999 al 2020 il decommissioning ha raggiunto il 28,3 per cento al passo non irresistibile dell’1,35 per cento all’anno. L’attuale management vanta un’accelerazione fino al 7,2 per cento nel solo 2021, con i lavori sugli impianti di Bosco Marengo e Casaccia, e prevede di superare il 10 per cento nell’anno in corso, salvo ovviamente ulteriori eventi traumatici a livello societario.
La tempistica non è confortante nemmeno per il deposito nazionale. Da Sogin fanno sapere che la nuova mappa dei siti seguirà un iter ancora lungo.
Voci non confermate parlano di territori che avrebbero espresso interesse a ospitare i rifiuti pericolosi che oggi vengono smaltiti a peso d’oro in Francia e Gran Bretagna. La leva occupazionale, per ora snobbata da sindaci e assessori, si potrebbe combinare con un altro elemento attraente per gli amministratori locali. È il centro studi che Sogin ha promesso di installare nei pressi della zona designata come deposito, magari a servizio della strategia per l’autonomia energetica di cui si parla, al momento, senza grandi fondamenti pratici. Se pure si superasse il no al nucleare del referendum del 1987 confermato dalla consultazione popolare del 2011, l’Italia non è neanche lontanamente in grado di partire con le nuove tecnologie dell’energia atomica dopo avere abbandonato ogni attività di ricerca per decenni.
Il bilancio di Sogin parla chiaro. Dal primo novembre 1999 al 31 dicembre 2021 lo smaltimento del vecchio nucleare è arrivato poco oltre il 35 per cento e il nuovo nucleare è nel libro dei sogni, l’anagramma di Sogin.