Ambiente
Pfas, la lobby che difende i veleni
Pressioni politiche, campagne di disinformazione, allarmismo. Così la messa al bando europea delle sostanze chimiche viene contrastata con ogni mezzo da chi le produce
«Se la restrizione proposta sarà attuata, un gran numero di farmaci importanti non sarà più disponibile. [...] Allo stato attuale, la grave preoccupazione che ho condiviso con voi il 14 settembre, ovvero che “saremo costretti a cessare le attività di produzione farmaceutica in Europa”, è ancora valida. Sarei molto lieto di sapere che non sarà così». Così scrive il Ceo di Novo Nordisk alla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, paventando un futuro in cui l’Europa sarà a corto di farmaci. La restrizione proposta è il bando dei Pfas, gli inquinanti eterni. Un bando che, invece, servirà a difendere il diritto alla salute in Europa.
Da settant’anni i Pfas sono usati in una miriade di settori industriali, dal tessile all’informatica. Il risultato è che queste sostanze tossiche sono ovunque nell’ambiente, e i costi per la loro bonifica sono esorbitanti. È una crisi che riguarda la salute di tutti. Per mettervi un freno, nel 2023 Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia hanno proposto di mettere gradualmente al bando l’intera classe di Pfas nell’Ue, con deroghe per le applicazioni essenziali. Ma la minaccia di una restrizione ha dato vita a una campagna di lobbying e disinformazione in cui aziende e associazioni di categoria (a partire da quelle della plastica) stanno usando argomenti falsi e fuorvianti per influenzare la politica, inondando le autorità europee di commenti per rallentarne l’operato.
Con l’inchiesta Forever Lobbying Project, un gruppo di 46 giornalisti in 16 Paesi ha indagato su questa campagna di lobbying, raccogliendo più di 14 mila documenti inediti.
Negare, sviare, rallentare
Le strategie per difendere i Pfas sono le stesse che altri settori industriali – dal tabacco ai combustibili fossili – hanno usato per continuare a produrre sostanze che mettono a rischio la salute pubblica. Negare (la pericolosità), sviare (l’attenzione), rallentare (le normative che potrebbero mettere fine al problema). I rischi per la salute non sono ancora del tutto compresi, ma sono chiari abbastanza da far sì che in pochi nel settore industriale difendano i Pfas a viso aperto. La strategia, quindi, è diventata quella di giustificarne l’uso in settori chiave o di chiedere esenzioni per quelle classi apparentemente meno pericolose.
Per farlo, aziende e associazioni di categoria non si fanno scrupoli a usare argomentazioni false e smentite dalla scienza, come quella che alcuni tipi di Pfas molto usati, i fluoropolimeri, non sarebbero tossici perché troppo grandi per entrare nelle cellule. O che l’Ocse li ritenga «non preoccupanti per la salute»: un’affermazione potenzialmente disonesta, smentita dalla stessa Ocse, usata quasi mille volte nei documenti analizzati, anche dalle italiane Assogomma e Confindustria. Altre argomentazioni false, difese con studi finanziati dalle stesse aziende che producono Pfas, riguardano la facilità di gestirne le emissioni, o che la persistenza di queste sostanze da sola non sia un fattore che deve destare la preoccupazione dei legislatori. Entrambe affermazioni smentite dalla letteratura scientifica.
Nessuna alternativa?
Ma il vero cuore delle argomentazioni dell’industria contro la restrizione, soprattutto in Italia, è economico. Il bando viene descritto come “catastrofico” per l’economia. Il motivo: ai Pfas non ci sarebbero alternative, e per cercarne servirebbero decenni. Sono richieste «esagerate» secondo il tossicologo Romain Figuière, uno degli autori del database ZeroPM, che elenca alternative già disponibili ai Pfas in molte applicazioni. «Alcune aziende si stanno impegnando per trovare alternative, ma non capisco perché altri non vogliano fare lo sforzo di investire. Sembra che spendano soldi per rallentare il processo invece di investire nella ricerca di alternative». Il budget per le attività di lobbying di Plastics Europe, tra le organizzazioni che guidano la campagna, è più che raddoppiato tra il 2021 e il 2023: da 2 a 5 milioni di euro.
Chi però sta davvero provando a liberarsi dai Pfas nei propri prodotti racconta che le alternative ci sono o stanno emergendo, anche in settori critici come l’informatica e le energie rinnovabili. È vero che bandire i Pfas avrà conseguenze economiche per le aziende che li producono. Ma organizzazioni come Plastics Europe paventano conseguenze sull’intera economia europea, senza però scomodarsi a presentare prove a supporto delle loro affermazioni, come nota Gary Fooks, esperto di reati d’impresa all’Università di Bristol.
Filo diretto con la politica
È una strategia che però sta funzionando: oggi gli argomenti dei lobbisti godono del supporto di politici come Stéphane Séjourné, Vicepresidente della Commissione Europea per la Prosperità e la Strategia Industriale. Per la sua prima visita ufficiale a dicembre 2024, Séjourné ha scelto gli uffici della multinazionale belga Syensqo a Bollate, fondata come spinoff del gruppo Solvay. «Siamo favorevoli al bando dei Pfas quando esistono alternative sicure», spiega Séjourné. «Tuttavia, quando non sono disponibili soluzioni alternative adeguate per prestazioni e sicurezza, la Commissione sostiene il proseguimento dell’uso dei Pfas nelle applicazioni industriali, in particolare quelle critiche». Anche Mario Draghi, nel suo rapporto sulla competitività in Europa del settembre 2024, affronta la questione Pfas, sostenendo che le restrizioni influiranno sulla competitività delle industrie europee, in particolare in settori chiave come le rinnovabili. ome le rinnovabili. Se l’obiettivo dichiarato è coniugare sostenibilità ambientale ed economica in modo pragmatico, il risultato è che il tema della competitività viene usato per indebolire le già fragili politiche ambientali dell’Ue, mettendo a rischio il diritto alla salute che dipende proprio da queste politiche.
È la retorica che si legge tra le righe anche nella Dichiarazione di Anversa, siglata a febbraio 2024 da quasi 1.300 firmatari del mondo industriale europeo, che chiede un Industrial Deal capace di promuovere «un nuovo spirito di legislazione» che «lasci prosperare gli imprenditori per trovare le migliori soluzioni ai problemi». Alla firma era presente anche l’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta, immortalato in prima fila assieme a von der Leyen. I lavori per arrivare alla Dichiarazione di Anversa sono stati coordinati da Cefic, il Consiglio Europeo delle Industrie Chimiche, che sborsa più di 10 milioni di euro l’anno in attività di lobbying e si spende a favore di “misure regolatorie equilibrate” sui Pfas. Cioè contro il bando.
L’inchiesta ha scoperto che le aziende chiedono tempo per trovare alternative ai Pfas da almeno 25 anni. Ma in questi decenni, in cui non hanno investito nella ricerca di alternative, i costi sanitari dell’inquinamento di queste sostanze sono ricaduti su di noi: sui nostri corpi, e sulle nostre tasche. «Non ci sono abbastanza soldi nel mondo per rimuovere i Pfas dall’ambiente alla velocità a cui li stiamo rilasciando oggi», ha commentato Ali Ling, esperta di bonifica ambientale dell’Università di St. Thomas negli Stati Uniti. Il bando europeo sui Pfas è un passo necessario per affrontare una crisi che già oggi lascia un’eredità irreversibile, che graverà sulle generazioni future.
Gli “inquinanti eterni” ci costano miliardi
I Pfas (sostanze per- e polifluoroalchiliche) sono una classe di circa 10 mila composti chimici utilizzati in molti prodotti industriali e di consumo, dalle pentole antiaderenti ai pannelli solari, per la loro resistenza a calore, acqua e oli. Tuttavia, questa caratteristica li rende estremamente persistenti nell’ambiente, tanto che vengono detti “inquinanti eterni”. I Pfas sono ormai presenti ovunque: nell’acqua, nel suolo, nel cibo, persino nel sangue umano e nel latte materno. Sono legati a gravi problemi di salute, come disturbi endocrini, malattie cardiovascolari e alcuni tipi di cancro. Tra i più gravi casi di contaminazione da Pfas in Italia spiccano quello del Veneto, provocato dall’impianto ex-Miteni, e quello di Alessandria, dove opera lo stabilimento Syensqo (spin-off di Solvay).
Negli ultimi anni, in Italia sono stati presentati alcuni disegni di legge per vietare la produzione e l’uso dei Pfas, poco concreti e con molte deroghe, che comunque non sono mai diventati legge. Ogni tentativo di regolamentazione a livello nazionale si scontra inoltre con l’assenza di un quadro normativo globale condiviso e con la difficoltà di accedere a informazioni scientifiche, spesso coperte da segreto industriale. Senza queste informazioni, diventa più complesso agire per normare queste sostanze. Marcos Orellana, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani e le sostanze tossiche dal 2020, spiega che «queste discrepanze non sono casuali, ma il frutto di strategie deliberate da parte delle industrie, volte a ritardare l’adozione di nuove normative».
È anche per questo motivo che il bando europeo invierebbe un segnale chiaro, obbligando le aziende ad adottare pratiche industriali responsabili. Secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, l’esposizione ai Pfas comporta già costi sanitari per la società, stimati tra 52 e 84 miliardi di euro annui in Europa. Quelli per una eventuale bonifica sarebbero ancora più alti: secondo la stima del Forever Lobbying Project, solo in Italia ci vorrebbero 391 milioni di euro l’anno, per un periodo di vent’anni, soltanto per bonificare le emissioni passate. Se le emissioni continuassero, senza un bando, la cifra salirebbe a 10 miliardi l’anno.
Questo articolo fa parte dell’inchiesta Forever Lobbying Project (foreverpollution.eu/lobbying), coordinata da Le Monde e condotta da Dagens ETC, Datadista/elDiario.es, De Groene Amsterdammer, Denik Referendum, Facta.eu, Financieele Dagblad, France Télévisions, Investico, Investigative Reporting Denmark, Klassekampen, Lavialibera, L’Espresso, MIT Technology Review Germany, NDR, Oštro, RADAR Magazine, Reporters United, RTBF, SRF, Süddeutsche Zeitung, Sveriges Radio, The Black Sea, Watershed Investigations/The Guardian, WDR, YLE, in collaborazione con Arena for Journalism in Europe e Corporate Europe Observatory. Questo progetto ha ricevuto finanziamenti da Pulitzer Center, Broad Reach Foundation, Journalismfund Europe e IJ4EU.