Fare canestro In un campo profughi

A Shatila, in Libano, c’è una squadra di basket di giovani palestinesi fuggite dalla loro terra. Che con lo sport cercano di conquistare nuovi spazi di libertà

A Shatila, uno dei 12 campi profughi palestinesi in Libano, non si vede il cielo. La pioggia attraversa la fitta rete di cavi elettrici sospesi da un lato all’altro della strada. «Qui ogni giorno i bambini muoiono a causa di questi cavi», sussurra Majdi Majzoub, la nostra guida nonché l’istruttore dell’unica squadra femminile di basket del campo. Un cappuccio per proteggere i lunghi capelli dalla pioggia, sua figlia Razan si affretta verso casa, schivando i bambini che giocano per strada. «Benvenuti», esclama facendoci entrare. Ventisei anni, metà palestinese e metà siriana, Razan è l’ex capitana della squadra di basket che suo padre allena. Mostra – ancor prima di iniziare a parlare – le foto delle sue prime partite, in un album rilegato per bene.

 

«Il principale obiettivo della squadra femminile di basket è sempre stato quello di far uscire le ragazze dalle loro case. All’interno del campo per le donne non c’era mai stata la possibilità di fare sport, e fuori noi, non essendo riconosciute come libanesi, non abbiamo accesso alle squadre femminili esistenti», spiega la ragazza. Lei di passaporto non ne ha neanche uno. La madre è una profuga siriana, il padre palestinese, ma lei è nata e cresciuta in Libano, figlia dell’esilio dei genitori.

 

Il progetto del basket femminile nel campo di Shatila è nato nel 2016, fortemente voluto da suo padre per dare un’alternativa alle giovani del campo. «Grazie a Un Ponte Per – spiega l’istruttore – siamo riusciti a organizzare viaggi all’estero». All’ultimo piano della sua casa, le ragazze si allenano in una piccolissima palestra. In questo momento è allagata. «Abbiamo infiltrazioni dal tetto», spiega Majdi. Ma nulla può fermare la fame di libertà delle ragazze di Shatila.

 

«Le donne nella nostra cultura non hanno gli stessi diritti degli uomini, ma attraverso lo sport abbiamo abbattuto queste barriere – continua l’allenatore – le abbiamo coinvolte e aiutate a scoprire la vita fuori dalle loro case. La vita non è solo in cucina, non è solo fare figli. Il nostro progetto vuole aprire nuovi orizzonti, per questo l’abbiamo chiamato “Il basket abbatte i confini”, siano essi statali o di genere».

 

«Quando papà ha ideato il progetto della squadra femminile avevo 14 anni ed ero una ragazza molto chiusa. Ricordo benissimo i primi allenamenti all’esterno, quando ancora non avevamo la palestra. Correvo di fronte a centinaia di ragazzi che giocavano a calcio e che ci guardavano. Superare la paura dei loro occhi sul mio corpo che si muoveva è stata una grande sfida per me, ma questo era l’inizio di un cambiamento di cui avrei preso coscienza solo più avanti». A diciassette anni, infatti, Razan fu costretta a sposarsi con il ragazzo con cui si era fidanzata due anni prima. «Ogni volta che volevo lasciarlo, non potevo», racconta Razan. «Era ovunque: fuori da scuola, sotto casa, tra i miei parenti. Non avevo scelta. Subito dopo il matrimonio iniziò a essere molto violento, mi chiuse in casa e mi costrinse a mettere il velo», continua, «la prima volta che rimasi incinta, persi il bambino per le botte che mi dava».

 

Denunciare la violenza domestica dentro il campo di Shatila è impossibile, come spiega l’ex capitana: «Non abbiamo un governo qui, e fuori dal campo non abbiamo diritti. La polizia libanese non può entrare nel campo, quindi se una donna denuncia un uomo, non possono prenderlo a meno che lui non esca. Nel frattempo lei deve tornare a casa e, se lui la trova, magari la picchia ancora più forte e la chiude in casa. Qui la polizia esiste, ma non è utile. Funziona tutto tramite conoscenze, non secondo giustizia, e spesso sono loro i primi a essere violenti con le proprie mogli».

 

Quando nacque Nabeel, il suo primo figlio, la violenza non si fermò e si scatenò anche contro di lui. Fu allora che Razan decise di lottare con tutta se stessa per ottenere il divorzio. «Quando hai un figlio, qualcosa dentro di te cambia. Potevo accettare le botte su di me, ma non su Nabeel. Scoprii di avere dentro una forza che non pensavo mi appartenesse», continua la donna, «aver superato delle barriere di genere già a 14 anni, aver viaggiato, aver conosciuto altre donne, aver capito che c’era la possibilità di stare al mondo in maniera diversa, mi ha cambiata o forse ha solo fatto uscire chi sono veramente». Adesso Razan vive con il figlio Nabeel nella casa dei genitori, si è diplomata e lavora come fotografa e social media manager. «La squadra di basket fu la prima scintilla per me – continua – la prova che una vita diversa era possibile. La dimostrazione che noi donne siamo forti e che insieme lo siamo ancora di più. Per questo la società profondamente patriarcale in cui viviamo, fondata sul controllo della donna, ne ha paura».

 

Spesso il progetto “Basket beats borders” viene ostacolato dalla stessa comunità per cui è stato creato. «Fare sport per le ragazze è vietato, se a questo sommi che le facciamo viaggiare e spesso le aiutiamo a uscire da situazioni di abusi e violenza, diventa fondamentale per noi costruire rapporti di fiducia con le famiglie, in modo tale che le lascino libere di venire agli allenamenti – spiega Majdi – ci sono stati diversi casi di ragazze che non sono più venute per volontà dei genitori o dei mariti. Tante altre invece, grazie al supporto della squadra hanno realizzato i propri sogni».

 

Wafa adesso è un’insegnante, Bahija è un’allenatrice, Rula e Amina hanno potuto accedere all’università. Altre ragazze della squadra di Razan sono emigrate, alcune in Italia, altre in Colombia. Tante altre continuano le loro vite nel campo e portano oggi le proprie figlie agli allenamenti di basket. Generazioni di donne che trovano libertà in un campo da basket mentre fuori si consuma la guerra degli uomini, compresa quella che prima di tutto miete vittime dentro le mura di casa, siano esse nel campo di Shatila o nelle città d’Europa.

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