Le colpe dei padri non ricadono sui figli, i tesori dei padrini uccisi invece restano nelle mani dei loro eredi. O almeno così è accaduto per oltre 15 anni permettendo ai patrimoni costruiti con il narcotraffico, con il racket, con il contrabbando di sigarette e il commercio di armi di restare nella mani delle famiglie. Un colossale catalogo di case e terreni accumulato dai vecchi capi di Cosa nostra oggi è diventato legale e garantisce la prosperità dei loro cari. Tutto perfettamente lecito, tutto non meno scandaloso per la memoria degli uomini delle istituzioni che sono morti combattendo contro quei boss e la loro ricchezza. E non si tratta di beni secondari: "L'espresso" ha censito oltre 70 immobili che secondo gli inquirenti sarebbero stati acquistati dagli antichi boss della cupola palermitana e oggi rimangono in mano alla loro discendenza.
Ville, appartamenti, interi condomini, spesso tirati su durante quel sacco di Palermo che ha trasformato i quattrini dell'eroina in cemento, facendo sorgere palazzi al posto di giardini ed aranceti, fino a stravolgere il volto della città. Oltre ai mattoni e ai campi ci sono anche pacchetti azionari, portando il valore di questo scrigno a superare i cento milioni di euro: è la dote degli anni Ottanta, quando la droga ha sommerso i clan di banconote, un capitale rimasto in mano ai consanguinei di quei baroni palermitani. Perché con la morte di un padrino i sequestri ordinati dalla magistratura decadevano, riconsegnando i beni ai presunti prestanome o agli eredi; mentre non era possibile per gli inquirenti bloccare i patrimoni di chi era già stato assassinato o, come spesso accadeva in quegli anni di sangue, era sparito vittima della lupara bianca. Questa falla nella legge Rognoni-La Torre è stata corretta soltanto nel 2008 con un consenso bipartisan: fino ad allora, l'omicidio di un mafioso aveva anche l'effetto di rendere immacolate le sue proprietà.
Oggi è possibile compiere un tour completo di queste ricchezze, ripercorrendo un itinerario delle borgate che avevano segnato l'ascesa della prima mafia imprenditrice, salita alle stelle negli anni Settanta e sterminata dai killer corleonesi. Chi arriva dall'aeroporto, su viale Regione siciliana si trova subito all'ingresso della città due grandi ville protette da muri di recinzione coperti dall'edera. Sono due grandi fabbricati realizzati in maniera imponente con i tetti spioventi che danno l'idea delle case di campagna del Nord europa. Le due dimore sono state lasciate in eredità dai boss Mimmo Teresi, ucciso con il metodo della lupara bianca nel 1981, e dall'imprenditore mafioso Giuseppe Albanese, assassinato nel 1986. Entrambi avevano fatto grandi affari con Stefano Bontate, l'uomo più influente nella cupola prima di Totò Riina che amava farsi chiamare "il principe di Villagrazia", e la sua famiglia: Teresi, che era cognato di Bontate, oltre alla villa ha lasciato alla moglie e ai due figli una lunga lista di appartamenti sparsi nella città, da via Uditore a via Nuova, da via Bonagia a via Aloi, da via Palmerino a via Aspromonte.
Le residenze del Principe invece si incontrano partendo da est, proprio dalla zona di Villagrazia. Modi borghesi, iscritto alla massoneria, attivissimo nei rapporti con le famiglie americane e con la politica regionale e nazionale, Bontate è stato ammazzato nel 1981. La sua ricchezza era enorme. Il pentito Francesco Marino Mannoia, il chimico che per suo conto raffinava tonnellate di eroina destinata al mercato statunitense, sostiene che questo traffico gli avesse fruttato centinaia di miliardi di lire. Il suo unico problema - secondo i collaboratori di giustizia - era trovare il modo di riciclare tanto denaro: lo avrebbe fatto anche attraverso il banchiere Michele Sindona. E, secondo Marino Mannoia, l'alleanza con i Gambino di New York lo aveva aiutato a investire in Florida e in alcune isole dei Caraibi anche se il pentito non ricordava - sostengono le fonti giudiziarie - se quei pacchi di dollari fossero finiti ad Aruba o ad Antigua. Ma Bontate è anche il capomafia al quale, secondo il racconto di alcuni pentiti, negli anni Settanta si sarebbe rivolto l'allora imprenditore Silvio Berlusconi, tramite Marcello Dell'Utri, per avere protezione a Milano. Il principe di Villagrazia avrebbe accolto con piacere la richiesta inviando ad Arcore uno dei suoi uomini: Vittorio Mangano.
I sicari che lo uccisero nella sua Giulietta blindata hanno anche consegnato alla moglie e ai tre figli decine di fabbricati e di lotti agricoli, concentrati nel territorio della borgata di Villagrazia con presenze in altri punti della città.
A Palermo i fabbricati gestiti dagli eredi del padrino sono decine, si trovano da via Palmerino a via Ippolito Nievo, da via delle Grazie a piazzale Aurora. E poi, fra tante, in via del Bersagliere, via Generale di Maria, e via dell'Ermellino. Vastissimi gli appezzamenti di terreno che invadono la Conca d'oro, molti dei quali coltivati ad agrumeti, altri con la possibilità di edificare.
In quegli anni di soldi facili, la speculazione edilizia gestita dalle cosche cementificò tutta una sponda del fiume Oreto sulla quale vennero realizzati grandi palazzi e condomini. Lì investì i guadagni del narcobusiness Giovanni Bontate, il fratello di Stefano: nel 1983 il tribunale sequestrò tutto, con una procedura confermata anche in appello e dove il boss si fece assistere dall'avvocato Renato Schifani (vedi articolo a pag. 56). Nel 1988 l'uccisione di Giovanni Bontate, assassinato assieme alla moglie Francesca Citarda, impedì alla magistratura di proseguire con la confisca dei beni. Alle tre figlie sono andati decine di fabbricati e appezzamenti di terreno che per gli inquirenti erano frutto dei guadagni del traffico di droga.
Dello stesso meccanismo hanno beneficiato i familiari di Rosario Riccobono, figura criminale leggendaria nelle cronache di quella stagione, vittima della lupara bianca il 30 novembre 1982: con la dichiarazione di morte i beni sequestrati sono stati riconsegnati alla cognata e ai nipoti, che secondo i magistrati erano invece solo dei prestanome.
Patrimonio immacolato anche quello del vecchio capomafia della Noce, Salvatore Scaglione, detto "Totò il pugile", ucciso nel 1982 senza che il corpo venisse mai ritrovato. I pentiti raccontano del suo immenso catalogo di case che si estendeva fra le zone di San Lorenzo e la parte a ovest della città. La moglie di Scaglione, Rosa Liga, entrò in possesso di decine di fabbricati, fra via Besio e viale della Resurrezione e una parte venne destinata all'unica figlia. La signora Scaglione quando nel 1985 furono avviate indagini sulla scomparsa del boss, alla polizia dichiarò di aver visto per l'ultima volta il marito una mattinata di tre anni prima, aggiungendo di non avere alcuna intenzione di sporgere denuncia.
Tutto si aggiusta nel mondo di Cosa nostra, tutto tranne che gli affari. Quando si toccano i soldi, i "piccioli", il giocattolo si rompe. I boss assassinati erano tutte vittime della guerra che Totò Riina aveva iniziato nei primi anni Ottanta contro i palermitani guidati da Bontate, che da allora furono indicati come i "perdenti".
I figli di quei mafiosi assassinati non si sono mai costituiti parte civile nei processi ai killer. Sono rimasti chiusi nelle ville o negli appartamenti di lusso che i loro genitori - secondo gli investigatori - avevano realizzato grazie alla droga e agli omicidi. E il paradosso di quella mattanza che segnò un cambiamento epocale nella storia di Cosa nostra è proprio nella questione dei piccioli: gli sconfitti sono diventati molto più ricchi, e in modo lecito, dei vincitori.
La polizia intercettando pochi anni fa alcuni capimafia hanno registrato una conversazione fra il boss Nino Rotolo, vicino ai corleonesi, e un giovane rampollo delle famiglie dei "perdenti". Rotolo dice: "Non c'è differenza fra voi che avete avuto i morti e noi che abbiamo la gente in galera per sempre, se vogliamo però una differenza c'è: a voi sono rimasti i beni e a noi li hanno levati tutti".