Trasformismo e inquinamenti che rischiano di essere ripetuti anche nella prossima tornata elettorale, le regionali del 5 novembre, quando dovranno essere rinnovati governatore e “parlamento” siciliani. Il centrosinistra aveva pensato di candidare il presidente del Senato, Pietro Grasso, per rompere gli schemi e dare corpo e sostanza alla parola legalità. La seconda carica dello Stato, dopo aver a lungo parlato con il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, «affrontando tutte le implicazioni politiche e istituzionali di tale scelta, soprattutto in relazione al delicato momento della Legislatura e ai prossimi impegni del Senato della Repubblica su temi importanti per il Paese quali ad esempio la Legge elettorale e la Legge di Bilancio», ha rinunciato a correre come presidente della Regione, sottolineando come «l'impegno e l'amore per la Sicilia non smetterà di essere espresso in ogni forma e in ogni sede anche nazionale, ma i miei doveri istituzionali attuali mi impongono di svolgere, finché necessario, il mio ruolo di presidente del Senato».
Grasso era stato oggetto di avance e inviti pressanti da parte degli intermediari di Matteo Renzi con i quali ha parlato. Ma è bastato far circolare sui giornali l’ipotesi per far dire all’azzurro Gianfranco Micciché, ex delfino di Marcello Dell’Utri ed ex plenipotenziario del centrodestra in Sicilia al tempo della vittoria sessantuno collegi a zero, che lui avrebbe votato per Grasso. Salvo poi ritrattare qualche giorno dopo: era solo una battuta.
Siamo in Sicilia, terra di Luigi Pirandello. Il contrasto tra il detto e il fatto, la riflessione e il sentimento, l’apparenza e la realtà secondo lo scrittore sono l’essenza della condizione comica dell’uomo «a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione che egli abbia di dire sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringano a dire no; e tra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso per tutta la vita».
Il “modello” Palermo
La notte in cui è stato incoronato “sinnacu” per la quinta volta ha fatto tornare in mente quando più di venticinque anni fa Leoluca Orlando puntava il dito contro Giulio Andreotti e Salvo Lima, accusandoli di collusioni mafiose. Nel momento della vittoria al primo turno dell’11 giugno Orlando ha proclamato: «Se la mafia pensava di tornare a Palazzo delle Aquile, i palermitani hanno detto no grazie». Segue lungo applauso. Ma a chi erano rivolte le parole del sindaco? A Totò Cuffaro che da più di un anno ha lasciato il carcere dove ha scontato la condanna per favoreggiamento a Cosa nostra e sponsor del candidato di centrodestra Fabrizio Ferrandelli.

Le parole del riconfermato primo cittadino di Palermo hanno provocato la reazione dell’ex presidente della Regione, che a caldo ha così risposto: «Mi ero ripromesso di non polemizzare con Leoluca Orlando. Non l’ho fatto durante tutta la campagna elettorale nonostante le sue pesanti e cattive insinuazioni. Oggi però, finita la competizione elettorale, il sindaco continua con le sue mistificanti esternazioni nei miei confronti, dimostrando l’arroganza di chi non sa vincere e mi vedo costretto a fare qualche precisazione». E poi aggiunge: «Pensavo che Orlando utilizzasse la bugia e la cultura del sospetto solo per scopi elettorali. Adesso che la campagna elettorale è finita e che ha vinto, fatico a comprendere perché utilizzi ancora la bugia, gli insulti e le accuse infamanti». Il colpo lo riserva sul finale: «Può un sindaco così onnipotente preoccuparsi di un insignificante ex detenuto e dei suoi pochi amici, lui che ha tra le sue liste la stragrande maggioranza dei “cuffariani”, molti dei quali in posti di potere?». La coalizione voluta da Orlando ha ottenuto ventiquattro consiglieri e fra questi ce ne sono quindici che provengono dal centrodestra.
Ogni settimana nelle varie province siciliane vengono arrestate decine di persone accusate di appartenere a Cosa nostra. Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti è così in grado di affermare che le cosche sono sempre molto attive sul territorio e puntano soprattutto a infiltrarsi in ogni settore della pubblica amministrazione.

I tentacoli della mafia
L’organizzazione mafiosa è ancora radicata nel territorio. Nell’agrigentino come nel trapanese, secondo i magistrati antimafia, Cosa nostra svolge tuttora il ruolo di mediazione, “risolvendo” controversie grandi e piccole. L’omertà resta diffusa e tanto difficile da sradicare. «Per Cosa nostra continua ad assumere rilievo strategico avere tra i propri ranghi, o tra i contigui, soggetti politici in grado di dirigere, coordinare o intervenire in attività amministrative ed economiche ritenute di interesse per l’associazione mafiosa», scrivono i magistrati della procura nazionale antimafia.
Gli uomini dei clan sono presenti anche nel settore della grande distribuzione e in quello delle energie alternative, come non mancano di ricordare gli inquirenti. Nella provincia di Trapani, infatti, Cosa nostra, secondo quanto raccolto dai magistrati, è «capillarmente radicata sul territorio e in grado di condizionare pesantemente la realtà sociale, economica ed istituzionale».
Un allarme è stato lanciato lo scorso mese dal questore di Palermo, Renato Cortese: «Siamo preoccupati, Cosa nostra si rigenera». Le indagini dalla polizia e la scarcerazione per fine pena di boss importanti fanno tenere alta l’attenzione degli uomini di Cortese. «Oggi Cosa nostra è un’organizzazione criminale costantemente in cerca di leadership, alla ricerca di personaggi che possano vantare un certo carisma: per questo monitoriamo ogni singolo movimento». E aggiunge: «Ha la capacità di rigenerarsi continuamente e ha bisogno di qualcuno che possa coordinare i rapporti tra le varie forze dell’associazione».
Trapani Nostra
Nella terra di Pirandello può anche accadere che a scegliere il sindaco di Trapani sia solo l’affluenza alle urne. Qui è stata giocata una partita dell’assurdo, senza avversari ma dall’esito niente affatto scontato. L’unico concorrente rimasto in gara per il ballottaggio, Pietro Savona del Pd, ha perso il confronto con se stesso, perché non sono andati alle urne pochi elettori. Per eleggere il sindaco occorreva almeno la metà più uno degli aventi diritto al voto. Si è arrivati a tutto ciò grazie all’altro candidato al ballottaggio, Girolamo Fazio del centrodestra. Fazio, una richiesta di arresto sulle spalle alla vigilia del voto con l’accusa di corruzione, non ha presentato la squadra degli assessori come prevede la legge, ed è decaduto dal secondo turno.
Uno stratagemma per creare il caos politico. La mancata elezione di Savona porta Trapani al commissariamento per almeno un anno. Una vittoria per chi considera la città come una “terra di mezzo”, percorsa da rapporti e clientele mafiose e massoniche, con economia e politica fatalmente inquinate.
Il terzo dei candidati in corsa, il senatore di Forza Italia Tonino D’Alì, rafforza ancor di più la teoria pirandelliana. Perché alla vigilia della campagna elettorale i magistrati hanno notificato al parlamentare un provvedimento con il quale si chiede al giudice il soggiorno obbligato. Indagini svolte in passato e dalle quali poi D’Alì è stato dichiarato prescritto, hanno portato comunque i pm a sostenere la sua pericolosità sociale.
Nonostante i problemi giudiziari il senatore è andato avanti nella sua campagna elettorale. Quando è esploso il caso è intervenuto anche il vice presidente della commissione antimafia Claudio Fava: «Il punto è che un signore considerato in una sentenza pienamente disponibile nei confronti dei mafiosi di una città, almeno fino al 1994, decida di candidarsi a governare proprio quella città. Senza che si alzi una voce, una protesta, un segno di imbarazzo».
Il paese di Messina Denaro
A circa cinquanta chilometri da Trapani c’è Castelvetrano, il paese del latitante Matteo Messina Denaro. Ma anche e soprattutto di chi si contrappone alla mafia come Giuseppe Cimarosa, che la denuncia perché l’ha conosciuta in famiglia: suo padre era un affiliato a Cosa nostra che ha iniziato a collaborare con i magistrati. Alla vigilia del voto, lo scorso maggio, il Consiglio dei ministri ha deciso di sciogliere il comune per infiltrazioni mafiose.
«Se si fosse votato tra i quattro candidati sindaci sarebbe stato anche Maurizio Abate, di cui vanno ricordate alcune eloquenti dichiarazioni riportate dalla stampa: negava l’esistenza della mafia, inveiva contro Giuseppe Cimarosa, figlio del collaboratore di giustizia Lorenzo Cimarosa, a sua volta cugino di Matteo Messina Denaro e la cui tomba è stata vilipesa proprio lo scorso maggio, lo invitava a prendere le distanze dal padre, mentre di converso elogiava la criminalità organizzata della quale condivideva le ragioni». Parole di Rosy Bindi presidente della commissione antimafia durante una seduta a Palazzo San Macuto. Il candidato sindaco aveva precedenti penali e condanne recenti, oltre a un processo in corso per furto aggravato. Ma c’erano anche altri candidati con un trascorso politicamente non proprio specchiato, come Giovanni Pompeo: già sindaco del paese, aveva avuto parole di rimprovero nei confronti di chi aveva denunciato le cosche a Castelvetrano, i rapporti tra mafia e massoneria, e non aveva invece avuto nulla da dire a chi aveva espresso una sorta di solidarietà nei confronti di Matteo Messina Denaro e di tutti i suoi uomini. Periodicamente arrestati per favoreggiamento del boss latitante.
Tutto immobile a Catania
È ancora pendente la richiesta avanzata al prefetto di una commissione di accesso al comune di Catania, dopo che indagini della procura antimafia hanno fatto emergere che la campagna elettorale di due consiglieri comunali è stata favorita dai clan di Cosa nostra. Non ci sarebbe stato scambio politico elettorale, ma sostegno ai candidati. Circostanze riscontrate anche dalle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia. Su questo punto si sono svolte in commissione antimafia alcune audizioni, fra cui quella del procuratore di Catania. E una relazione è stata fatta anche dalla commissione regionale antimafia dopo un lungo lavoro di audizioni svolte nel capoluogo etneo. Il documento, approvato all’unanimità, lo scorso anno è stato inviato al presidente dell’Assemblea regionale siciliana, Giovanni Ardizzone, alla Commissione parlamentare antimafia e alla Procura distrettuale antimafia. Ma il prefetto non si è mosso.