Si attende, puntuale, il dispiegarsi dell’armamentario di fastidio, sarcasmo, indifferenza. Obiettivo: dissacrare il 25 aprile. Come quando lo si voleva rinominare «festa della libertà» o seppellire come «divisivo». Ecco, sgombrando il campo da equivoci, qui l’intento è celebrare gli ottant’anni della Liberazione. Data fondativa della Repubblica italiana e della sua Costituzione antifascista, nata dalla Resistenza. Si accetterà il rischio di apparire paranoici, ossessionati dalle svolte autoritarie e ispirati da un passato remoto. Se a dare dei nostalgici è chi s’ostina a tenere accesa la fiamma tricolore nel simbolo del proprio partito, l’accusa si riduce alla storiella del bue che deride l’asino. A furia di sottovalutazioni, però, si sono spalancate le porte del potere a una destra che non si riconosce nei valori del 25 aprile. E l’ideologia di riferimento non è più, entro certi limiti, dissimulata, ma ostentata con le vesti di egemonia culturale.
Nel 2022, chiedendo al Parlamento di votare la fiducia al suo governo, Giorgia Meloni ricordava di provenire «da un’area culturale che è stata spesso confinata ai margini». Appunto. E commemorava «i ragazzi innocenti uccisi nel nome dell’antifascismo militante», reo di aver allontanato «una pacificazione nazionale». Un tono di rivalsa che risuonava pure nella lettera inviata al “Corriere della Sera” per il suo primo 25 aprile da presidente del Consiglio: «La stessa data non segnò anche la fine della sanguinosa guerra civile che aveva lacerato il popolo italiano», sottolineava in un miscuglio tra foibe e Resistenza. Del resto, Meloni non era riuscita a scorgere la «matrice» dell’assalto orchestrato da Forza nuova alla sede romana della Cgil nel 2021. E, lo scorso marzo alla Camera, ha brandito il “Manifesto di Ventotene” per seminare il dubbio che taluni martiri antifascisti tanto innocenti non fossero. Rivendicando il diritto di non essere d’accordo con le loro idee. Ci mancherebbe. Salvo il gusto macabro di farlo nell’Aula in cui, un secolo fa, Benito Mussolini rivendicò la responsabilità morale e politica dell’assassinio di Giacomo Matteotti.
Perciò occorre ribadire che il 25 aprile 1945 segnò la vittoria di chi combatté la dittatura e l’occupazione nazifasciste su chi ne fu fautore, complice o silente spettatore. Perciò è necessario che la Liberazione rimanga carne viva, oltre che memoria tramandata dai partigiani. «La premier è fedele epigona di una tradizione ipernazionalista e fascista», commenta Tomaso Montanari, rettore dell’Università per Stranieri di Siena: «Nel suo discorso pubblico ha archiviato Repubblica e Stato; ha resuscitato il secondo, giusto per bollare la fiscalità come “pizzo di Stato”». E, invece, nell’antifascismo che ha portato alla Liberazione ci sono due spinte inesauste. Le quali esprimono l’ambizione di non fermarsi alla lotta di allora. Una si traduce nella «teoria dello Stato antifascista», come dice lo storico Davide Conti. «L’antifascismo aveva caratteristiche inedite per l’Italia – spiega lo studioso – sul piano militare si distingueva per la partecipazione popolare volontaria, non per coscrizione di leva, e per la contestazione al monopolio degli eserciti regolari nell’uso legittimo della forza; sul piano politico si distingueva per il pluralismo delle anime che vi erano rappresentate. Due tratti da cui discende la vocazione costituente che trovò la sua prima sintesi nella Carta del 1948». La seconda spinta è data dagli «altri moti storici, nel nostro Paese e non solo, che nell’antifascismo hanno individuato un antecedente e un principio informatore». Dal Chiapas al Rojawa.
Il problema è che, in Italia, la democrazia si trascina un peso. Fu l’ex partigiano Claudio Pavone a dimostrare l’inconsistenza di uno dei più tenaci argomenti della storiografia avversa alla Resistenza: finita la guerra, il nuovo Stato antifascista avrebbe epurato a ogni livello tutti i funzionari che avevano servito il regime, senza troppo riguardo al loro effettivo coinvolgimento nei crimini di quest’ultimo. All’opposto. Gli apparati statali non smisero di essere innervati da funzionari – dai prefetti ai docenti universitari – formatisi sotto il fascismo e permeati della sua dottrina totalitaria. Un caso celebre? Marcello Guida, questore di Milano al tempo della strage di Piazza Fontana, propugnatore della pista anarchica e della tesi del suicidio di Giuseppe Pinelli. L’allora presidente della Camera, Sandro Pertini, non gli strinse la mano durante la visita in città dopo la morte del ferroviere. Guida era stato il suo carceriere a Ventotene. Intanto, provvedimenti di amnistia mal concepiti e largamente applicati da una magistratura ancora intrisa di cultura fascista garantivano impunità a criminali di guerra.
Senza una vera soluzione di continuità, è divenuta mainstream una cattiva interpretazione del passato prima relegata alle ridotte di nostalgici e neofascisti. Le gravi distorsioni dei fatti dell’Alto Adriatico (il cosiddetto confine orientale) ne sono esempio lampante. Si tratta delle rivolte spontanee in Istria del 1943, delle fucilazioni sommarie attorno a Trieste nell’aprile 1945, della migrazione degli italofoni dai territori jugoslavi nei tre decenni successivi alla fine del conflitto. Ciascuna vicenda ha svolgimento e cause quasi del tutto indipendenti rispetto alle altre, ma la propaganda neofascista le presenta come fasi di un unico disegno jugoslavo di pulizia etnica a danno degli italiani. Lettura smentita, in primis, dalla Commissione mista storico-culturale italo-slovena.

Dagli anni Ottanta cominciò a sgretolarsi la struttura dell’arco costituzionale, ossia l’idea che si fosse politicamente legittimati solo se ci si riconosceva – seppure di facciata – nella discendenza dalla guerra di Liberazione. La crisi del Pci coincise con un arretramento dell’identità antifascista della principale forza di sinistra nel Paese, come se la lotta partigiana appartenesse al trascorso comunista che la maggior parte della dirigenza del partito intendeva lasciarsi alle spalle. Del resto, pungola Montanari, «per Carlo Rosselli essere antifascisti significava contrastare la divisione in classi e favorire la distribuzione della ricchezza. Che cosa resta di ciò nella sinistra europea?». In seguito, a destra, l’apertura di Silvio Berlusconi all’Msi sancì l’ingresso del partito neofascista nella coalizione di governo. Il riflesso di tale doppio movimento, cioè della crisi dell’antifascismo e della legittimazione del postfascismo, è la formazione di un paradigma che s’è condensato nella locuzione «memoria condivisa». Non è la costruzione di un’identità collettiva sortita dall’elaborazione critica del passato, dall’assunzione di responsabilità per le colpe dell’Italia fascista e prefascista, bensì l’invito più o meno esplicito a dimenticare quel passato imbarazzante: una specie di baratto sporco dell’oblio sui crimini del fascismo con l’oblio sul senso profondo dell’antifascismo. L’esito è cronaca dell’oggi.
Ci sono aspetti simbolici che evidenziano lo sdoganamento. Si guardi tra le file di FdI. Con il presidente del Senato, Ignazio La Russa, che non riesce a buttare busti del duce e altra chincaglieria simile. Con l’onorevole Fabio Rampelli che ad Acca Larentia omaggia vittime della violenza politica senza infastidirsi per croci celtiche e braccia destre tese. Con le sezioni intitolate a Giorgio Almirante: fascista, difensore della razza, dirigente della repubblica di Salò; poi guida dell’Msi, ammiratore delle dittature di Spagna, Portogallo, Grecia, Cile e prodigo di coperture per terroristi neri. Solo per citare alcuni casi. Mentre altri testimoniano il riproporsi delle movenze del neofascismo del secondo Novecento. Il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, che cita le teorie elitarie e reazionarie del filosofo Julius Evola. Emanuele Merlino, capo della segreteria tecnica del medesimo dicastero, vicino a CasaPound. E via dicendo.
Infine, si riprendono i punti di programma. Uno su tutti: il presidenzialismo assoluto caro ad Almirante, senza contrappesi istituzionali capaci di bilanciare il potere dell’esecutivo. Perciò la visione politica di FdI è “neomissina”, senza contare la volontà di chiudere la parentesi “normalizzatrice” di An di Gianfranco Fini. Nella Lega, intanto, Matteo Salvini ha incassato l’endorsement di Franco Freda (uscito indenne dai processi su Piazza Fontana, ma condannato per istigazione all’odio razziale per vicende del Fronte nazionale) e sono stati accolti estremisti nell’orbita di Ordine nuovo come Mario Borghezio. In generale, questa destra si rifà al modello di Stato autoritario che fu alla base delle azioni del blocco d’ordine nei primi decenni della Repubblica. «Le forze conservatrici hanno sia impedito l’attuazione del programma costituzionale sia legittimato la repressione feroce dei moti progressivi agiti dal popolo e dai lavoratori. Che si battevano per l’effettività della Costituzione, in linea con l’esperienza resistenziale», commenta Giuseppe Filippetta, già direttore della Biblioteca e dell’Archivio storico del Senato.
Di qui, gli attacchi al 25 aprile. Incompatibile con lo Stato autoritario, per essere fondativo di quello democratico. E incompatibile con il nazionalismo, come dimostra la composizione del partigianato. In “Storia internazionale della Resistenza italiana” (Laterza), il curatore Carlo Greppi ricorda il censimento svolto nel 2019 dallo scrittore Wu Ming 2: emerge la presenza tra i partigiani di uomini e donne provenienti da una cinquantina di odierni Stati (all’epoca parecchi erano inglobati dall’Urss). «Non si può prescindere dalla vocazione patriottica di molti», aggiunge l’altra curatrice del libro, Chiara Colombini: «E non avrebbe potuto essere diversamente, perché erano cresciuti in una cultura imbevuta di sentimenti patriottici. Di certo ciò è servito da elemento d’amalgama tra gente che veniva dai quattro angoli del mondo e che si trovava in Italia per motivi contingenti, ad esempio perché vi era stata fatta prigioniera di guerra. Ma nella mente dei combattenti di questo partigianato transnazionale c’erano tante patrie quante le loro origini. Nel “W l’Italia libera” con cui spesso si concludevano proclami e lettere dei condannati a morte, il sostantivo conta quanto l’aggettivo e l’aggettivo dice dell’idea di Stato antifascista che era il progetto politico della Resistenza».
Un nodo cruciale. La Resistenza è stata un fatto d’armi, ma pure un progetto politico. Altrimenti non sarebbe durata almeno dal settembre 1943 all’aprile 1945, condotta, com’era, da relativamente pochi guerriglieri male in arnese e clandestini. Invece, in banda c’erano insieme il comandante e il commissario politico: diarchia esemplare del modo in cui si pensava la presa delle armi. Ed è sull’aspirazione a fondare con l’abbattimento del fascismo una società tra eguali e liberi che i resistenti in armi incontrarono l’appoggio morale e materiale dei non armati. Terreno su cui oggi si sorvola, quando si usa per pura propaganda la Resistenza e la si riduce a un’impresa di volenterosi guerrieri. Questo senza nulla togliere al valore, grande, delle imprese di guerriglia compiute. La più eclatante – la più detestata dai nemici, tenuta in alta considerazione dal Comando alleato – è l’attentato di via Rasella a Roma. Nel marzo 1944, un ordigno piazzato dai Gap uccise 32 soldati del reggimento di polizia “Bolzano”, poi inquadrato nelle Ss e impegnato in blitz antipartigiani. Quello descritto da La Russa come «una banda musicale di semi-pensionati», per intendersi. In rappresaglia, i nazisti rastrellarono 335 persone e le trucidarono alle Fosse ardeatine.
Il dilemma che lacerava la coscienza dei partigiani, cioè impugnare le armi per accelerare la sconfitta dei nazifascisti, si rispecchia nell’articolo 11 della Costituzione e nel ripudio della guerra lì proclamato. I lavori dell’Assemblea costituente ne documentano il presupposto: è il ripudio preventivo di un nazionalismo che si percepiva «rinascente» già allora. «La norma giudica storicamente la biografia della nazione, nel momento in cui ne riconosce il legame stretto con le guerre che ha combattuto e quelle guerre rifiuta», prosegue Montanari: «Ma è stata drammaticamente disapplicata». L’intenzione era disporre lo Stato nuovo, egualitario, democratico e repubblicano a entrare nell’Onu. Intravedendo la possibilità che l’Europa, distrutta, approntasse un progetto d’unità politica. Il dibattito parlamentare del marzo 1949 sull’adesione dell’Italia alla Nato, però, tracciò la prima crepa. E i contrari si richiamarono proprio all’articolo 11: compreso il suo ispiratore, Giuseppe Dossetti. Com’è andata? Alla luce del contesto mondiale odierno, la giornalista Paola Caridi misura la radicale deviazione della politica europea da un pensiero intonato al principio pacifista della nostra Carta: «Amici palestinesi e israeliani mi domandano da sempre perché l’Ue sia assente in funzione di mediazione e facilitazione. Abbiamo scelto di sostenere le ragioni d’Israele, mentre dall’Asia sudoccidentale ci veniva richiesto di assumere una posizione diversa rispetto agli Usa e alla Russia».
Così nel Vecchio Continente «che si fa fortezza e innesca una folle corsa al riarmo» – ancora Montanari – si manifestano l’importanza e l’attualità della Liberazione ben oltre l’Italia. Per fortuna non mancano buona storiografia e studio della guerra partigiana, da cui arriva un’indicazione preziosa: ci sono memoria attiva della Resistenza e antifascismo vivo, quando c’è un movimento reale e progressivo di massa che ne raccoglie istanze e lotta. Affinché la società dell’uguaglianza sostanziale, sancita dalla Costituzione, diventi realtà tangibile. Ecco perché, ogni volta in cui si mette in discussione il tesoro di diritti e libertà conquistato il 25 aprile di ottant’anni fa, si dovrebbe ribattere citando Piero Calamandrei. Al gerarca nazista tedesco, Albert Kesselring, che pretendeva di essere onorato dall’Italia con una statua piuttosto che perseguito per i crimini commessi, rispose che qui avrebbe trovato un solo «monumento che si chiama ora e sempre Resistenza».
*Luca Casarotti, giurista e studioso della Resistenza, è ricercatore all’Università per Stranieri di Siena e presidente di Anpi Pavia Centro. È autore del libro “L’antifascismo e il suo contrario” (Alegre, 2023) e del podcast “Quattroventi” realizzato per Radio Onda d’Urto (le quattro puntate sono reperibili sulle principali piattaforme online)