25 aprile, il ruolo dimenticato delle fasciste di Salò nell’incubo mussoliniano

Ottant’anni dopo la Liberazione, le storie (terribili) di quelle donne che scelsero di fiancheggiare la dittatura

Per i giudici del secondo dopoguerra, le donne di Salò erano da intendersi “non completamente coscienti” dei delitti che avevano commesso. Tutte, o quasi, beneficiarono di quel clima di pacificazione forzata e rinnovato sessismo che si diffuse negli anni Cinquanta. A ottant’anni dalla Liberazione, bisogna confrontarsi anche con una memoria negativa che continua a essere dimenticata. 

Donne in armi

Fiancheggiatrici attive, spietate assassine, torturatrici peggiori di molti uomini: non furono poche le giovani donne che scelsero di arruolarsi nelle formazioni militari della Repubblica Sociale Italiana. Nel 1944 venne creato il SAF, il Servizio Ausiliario Femminile, che già nel 1945 arrivò a contare circa 6.000 soldatesse. Alcune di loro erano animate da una sincera fede nel fascismo e nella possibilità di una sua rinascita. Più spesso, a spingerle era il desiderio di partecipare attivamente a un conflitto che stava spaccando il Paese. Per molte di loro, indossare pantaloni e imbracciare un mitra significava accaparrarsi un ruolo in una storia che sembrava riservata solo agli uomini. Come scrive la storica Cecilia Nubola, autrice del libro “Fasciste di Salò”, per queste donne il combattere diventava un mezzo di emancipazione e un modo per rivendicare il diritto di partecipare alla vita della patria. L’arruolamento, in molti casi, era anche una dura critica ai loro coetanei maschi, giudicati incapaci, codardi e inadatti ad affrontare la gravità del momento storico.

Storie di ragazze “normali”

Lontane dall’essere vittime o semplici complici, molte di loro parteciparono in prima linea alle torture e alle delazioni. Vestite con uniformi tedesche, armate e sicure di sé, queste donne furono protagoniste di episodi di brutale violenza contro partigiani e civili: nelle “Ville Tristi”, ovvero i luoghi di detenzione e tortura, il loro ruolo fu tutt’altro che marginale. Ciò che lascia ancora oggi sconvolti è la loro giovane età. Prime fra tutte, le terribili sorelle Carità, Franca ed Isa, che avevano rispettivamente diciotto e quindici anni all’epoca dei fatti. Figlie del fondatore della “banda Carità”, (un’organizzazione fascista specializzata nella lotta anti-partigiana) le sorelle si distinsero per la loro ferocia. In particolare, Franca si serviva di spilli e ferri roventi sui genitali per torturare le sue vittime.

 

Le storie sono moltissime, come quella della marchigiana Adriana Barocci, che fece correre un soldato per ore attorno ad una buca fino a quando il giovane non cadde stremato. A quel punto la Barocci e gli altri lo fucilarono senza nessun motivo. Anna Maria Maggiano era un’insegnante di musica prima di arruolarsi fra le file repubblichine. Nata in Sardegna, Maggiano si specializzò nella delazione di partigiani e arrestò personalmente una donna solo per averla sentita contestare la brutalità dei componenti della Muti (ovvero la Legione Autonoma Mobile Ettore Muti, un corpo militare con compiti di polizia politica).

Assoluzioni e indulti

Le strategie difensive tentarono di cancellare le storie terrificanti di donne senza scrupoli. Dalla Xª Mas alla Guardia Nazionale Repubblicana fino alle Brigate Nere le ragazze di Salò dimostrarono una ferocia mai riscontrata prima.  Il trauma sociale che seguì la Guerra venne risolto con un colpo di spugna: prima nel 1946 con l’amnistia di Togliatti, poi negli anni Cinquanta con una lunga serie di provvedimenti di clemenza che si susseguirono uno dopo l’altro.

 

Tra questi, un ruolo determinante lo ebbe la legge approvata il 18 dicembre 1953, che permetteva la liberazione condizionale dei condannati per reati politici, senza tener conto della pena già scontata o ancora da scontare. Bastava la volontà del ministro della Giustizia perché la misura fosse applicata. Questo provvedimento segnò, di fatto, la chiusura definitiva di una delle questioni più spinose del dopoguerra: quella della responsabilità penale dei collaboratori del regime nazista e delle atrocità commesse durante l’occupazione. La “donna velata”, ovvero Maria Concetta Zucco, si guadagnò quel soprannome indossando occhiali scuri e cappuccio. La Zucco fu una delle tante a beneficiare degli sconti di pena negli anni Cinquanta. Dopo essere scampata alla pena di morte trascorse solo nove anni in carcere, la donna riuscì a tornare libera nel maggio 1954. La vicenda Zucco è solo un esempio fra tanti: gran parte delle “fasciste di Salò” tornarono ad una inquietante normalità, dimenticate dalla storia e dalla giustizia.

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