Quando a fine gennaio Robert F. Kennedy Jr. si è seduto alla scrivania del ministero della Salute, tutti si aspettavano che il primo dossier aperto sarebbe stato quello dei vaccini obbligatori su cui è sempre stato scettico. Nessuno, però, immaginava che in un colpo secco il nuovo titolare della sanità avrebbe firmato il licenziamento di migliaia di dipendenti, indebolito le agenzie che guidano la lotta contro le epidemie, chiuso i rubinetti alle campagne di prevenzione. Nel solco dei “tagli con l’accetta” promossi dall’amministrazione repubblicana e dal Dipartimento di Elon Musk. D’altronde, un ministro blindato con tanta convinzione da Donald Trump – nonostante il codazzo di controversie – non poteva che seguire le direttive del capo con assoluta lealtà.
Il nipote del presidente più amato dagli americani assassinato a Dallas e il figlio del senatore volto della speranza negli anni più neri d’America è oggi al centro di una rivoluzione che di kennediano non ha nulla. La sua gestione sta svuotando non solo i bilanci, ma anche i laboratori: oggi i ricercatori valutano l’idea di andare a lavorare all’estero. Il clima di tensione non riguarda solo il ministero della Salute, ma si estende a tutto il mondo dell’accademia che l’amministrazione percepisce come ostile. In risposta alle politiche trumpiane c’è già chi pensa alle valigie, diretto in Canada o in Europa (il 75 per cento degli scienziati statunitensi interrogati dalla rivista Nature). Brain drain e brain gain, a ruoli invertiti. Gli Stati Uniti, che per anni hanno attirato i migliori studenti da tutto il mondo, rappresentando la terra promessa dell’innovazione, diventano improvvisamente un porto di partenza, con l’Europa che si attiva per aprire le sue pesanti porte all’emigrazione scientifica. Un gruppo di paesi si è rivolto alla commissaria Ekaterina Zaharieva per avere finanziamenti e facilitazioni atte ad accogliere i cervelli in fuga. Tra i più attivi, la Francia, con il programma “Safe Place for Science” dell’Università Aix Marseille, e i Paesi Bassi.

A denunciare l’anomalia americana, e l’incognita di una definitiva perdita di leadership, sono oltre duemila membri delle National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine che hanno firmato una lettera aperta contro l’assalto della Casa Bianca alla scienza. Un’aggressione che ostacola la collaborazione internazionale e distrugge l’indipendenza degli scienziati, a colpi di ordini esecutivi e minacce finanziarie. Ma elimina anche concetti ritenuti “woke” come quello della "disparità sanitaria", riferito alle minoranze. Dall’Health and Human Services Department – colpevoli con i loro 1.700 miliardi di dollari di budget, a detta dei trumpiani, di «non essere riusciti a migliorare la salute degli americani» – Kennedy annuncia una raffica di licenziamenti per circa diecimila dipendenti distribuiti tra tutte le agenzie. L’obiettivo dichiarato è semplificare quella che ha definito «una burocrazia tentacolare».
Se alla conta si aggiunge chi andrà in pre-pensionamento, i dipendenti potrebbero passare da 82mila a 62mila. Solo alla Food and Drug Administration (Fda), una delle agenzie più importanti – che si occupa dell’approvazione dei farmaci e dei macchinari, ma controlla anche la sicurezza degli alimenti – è stata notificata una riduzione del personale di 3.500 unità. I Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), che abbiamo imparato a conoscere durante la pandemia, sono stati colpiti con 2.400 licenziamenti. Mentre alla National Institutes of Health (Nih), agenzia dedicata alla ricerca biomedica e sanitaria che finanzia università e centri per studiare le cause e le cure delle malattie, hanno ricevuto la lettera di licenziamento 1.200 persone. E via discorrendo.
La ristrutturazione non si ferma all’organico, ma ovviamente colpisce il budget: cancellati gli 11,4 miliardi di dollari in sovvenzioni assegnati in emergenza, con la chiusura di programmi dedicati alla salute mentale e al supporto delle comunità più fragili e ridotte del 35 per cento le spese per i contratti stipulati dal ministero. La macchina della ricerca rischia di bloccarsi se si pensa che tantissimi progetti sono in collaborazione proprio con enti esterni, come le università e i laboratori privati. Alle paure legittime si aggiungono incertezza e pressappochismo. Lo stesso Kennedy ha ammesso che molti dei licenziati potrebbero essere reintegrati per via di un errore «calcolato». E anche se il ministro promette che «faremo di più con meno», gli scienziati sentono che la paralisi è un pericolo concreto.
Tra i firmatari del documento di protesta c’è anche Steven Woolf, direttore emerito del Center on Society and Health alla Virginia Commonwealth University. «Temiamo le conseguenze per gli americani e le loro famiglie», dice a L’Espresso. «Questi tagli hanno costretto molti a sospendere gli studi su cui erano impegnati e bloccato le assunzioni». Anche un giornale conservatore come il Wall Street Journal, che non si oppone a priori alla stretta, in un editoriale critica il substrato ideologico di Kennedy, incarnato dall’assunzione di vaccino-scettici come David Geier, che corre il rischio di aggravare l’emorragia al dipartimento della Salute. Ne è un esempio la defenestrazione di Peter Marks, responsabile per i vaccini dell’Fda. Nella sua lettera di dimissioni, lo scienziato denuncia come il segretario «non desideri verità e trasparenza, ma piuttosto un’obbediente conferma delle sue disinformazioni e bugie».
C’è poi una paura più silenziosa, figlia della nuova linea seguita dall’amministrazione, che obbliga la scienza a uscire dalla campana di vetro dei laboratori e delle aule. L’ostilità verso avversari politici e istituzioni, lo smantellamento dei programmi di inclusione negli uffici pubblici, gli arresti degli studenti per le proteste nei campus, hanno creato un’atmosfera da autocensura. «Per non perdere finanziamenti e posti di lavoro, i ricercatori evitano di esprimersi pubblicamente ormai. Alcuni stanno persino riscrivendo le proposte dei progetti e gli articoli eliminando le parole che la Casa Bianca potrebbe considerare problematiche», aggiunge Woolf. Per non perdere la libertà intellettuale, quindi, meglio andare via. «Un collega ha deciso di trasferirsi a Londra, altri pensano all’Europa o al Canada». Tra chi traslocherà dai cugini del Nord c’è Marci Shore dell'università di Yale, in partenza per la Munk School of Global Affairs & Public Policy dell’Università di Toronto. La professoressa, specializzata in storia europea, evoca Nerone quando descrive Trump, commentando la paura negli atenei. «Al momento il Canada rappresenta un ambiente molto più stabile e democratico rispetto agli Stati Uniti».