Per concessione dell’autore, anticipiamo qui di seguito un brano di "Colosseo vendesi" edito da Bompiani (196 pagine, 12 euro)
Il Presidente aveva preso a passeggiare nervosamente davanti alla finestra affacciata sugli splendidi giardini del Quirinale. «Non capisco cosa ti sia saltato in mente!», continuava. «Non ti sfugge il senso del ridicolo di un governo che fa la prima cosa suggerita da un giornale, peraltro assai decaduto, e scritta da un economista che nessuno conosce? Ti sarebbe bastato leggere le poche nobili righe vergate dal professor Nonis, per ricrederti. E invece...».
Aveva detto proprio così: “vergate”. Al Successore era venuto da ridere perché non conosceva il significato di quel verbo, anche se lo poteva intuire, né tantomeno sapeva chi fosse quel professor Nonis di cui ovviamente non aveva letto l’articolo. Per lui contava che l’ipotesi della vendita del Colosseo avesse attratto la curiosità del “Financial Times” e che il Servizio di Rilevazione della Presidenza ne avesse misurato la popolarità tra la gente, per nulla contraria alla proposta. Si grattò il capo, illudendosi che il Presidente si fosse disposto ad ascoltarlo, anche se continuava a dargli le spalle e a guardare fuori. «Innanzitutto ti prego di scusarmi, Presidente, e credimi, la fuga di notizie non è opera mia. Così come non è mia la colpa se ho dei ministri irresponsabili. Uno in particolare», sottolineò, con evidente riferimento a quello che aveva appena incrociato alla Porta Giardini. «Tu stesso diverse volte», riprese, «e molte di più il Governatore della Banca d’Italia con cui mi hai esortato a stabilire un rapporto, mi avete spinto ad aggredire la situazione dei conti pubblici, da tempo fuori controllo. Non più tardi di ieri, il Governatore mi ha comunicato che il debito pubblico dell’Italia si sta avviando verso i tremila miliardi, e la Commissione europea non ce lo perdonerà. L’Italia è molto vicina alla Grecia, non solo geograficamente, caro Presidente. E molto più larga e profonda di quella greca è la nostra falla da turare. Le tasse sono al limite, non vedo come potrei inasprirle. L’evasione fiscale, lo sai meglio di me, è strutturale, nel senso che è consentita, e in qualche caso favorita, dalle leggi vigenti. I sindaci non possono più uscire per strada da quando hanno dovuto introdurre addizionali locali, impossibili da aggirare, che hanno dato un’ulteriore torchiata ai cittadini. C’è gente che non va più in ospedale, che non si cura perché non riesce a pagare il ticket. Le privatizzazioni degli enti economici di proprietà del Tesoro sono già state fatte. E non sono bastate. Le principali banche sono di proprietà straniera e non ci faranno sconti. Lo stesso dicasi per telefoni e ferrovie. Vedi altra soluzione se non intaccare il patrimonio artistico e monumentale? È l’unica cosa che ci resta».
Il Presidente era rimasto muto, lo sguardo volto all’esterno, e il Successore non era neppure sicuro che avesse ascoltato. Ma pronunciato sullo sfondo del più bel palazzo di Roma e scandito da un estraneo alla nomenklatura, che soltanto per accidente era andato al potere, quel discorso era innegabilmente imbevuto di Realpolitik. Lasciò passare un paio di minuti pesanti, pesantissimi, poi si girò verso il premier. «Ti ho sempre detto che non sarei entrato nel merito delle scelte del governo, che non mi competono, e non intendo venir meno al mio impegno. Il punto è un altro. Sei sicuro che l’alienazione di un monumento simbolo come il Colosseo sia possibile? Cosa ti fa pensare che lo sia? Non ti sovviene che l’argomento usato da Nonis - il valore universale dell’oggetto - rappresenti di per sé un ostacolo? Perché prima di decidere non hai sollecitato i pareri della Corte dei Conti, del Consiglio di Stato, del Consiglio superiore dei Beni culturali, dello stesso ministro competente, che mi risulta sia stato escluso preventivamente dal processo decisionale?».
«Se avessi fatto come tu suggerisci, Presidente, sia detto con il massimo rispetto, sai bene come sarebbe finita. Solo perché la proposta era mia, tutti l’avrebbero considerata impraticabile. Avresti fatto prima tu a vendere il Quirinale - chi lo sa, potrebbe interessare a una multinazionale, o a Google come colpo di immagine! - che non io a mettere il Colosseo all’ordine del giorno del consiglio dei ministri. Quanto a Ino, che è venuto a lamentarsi, mi meraviglio che tu non gli abbia fatto notare in quale stato mantiene i monumenti a cui dice di essere così attaccato».
Il Presidente preferì sorvolare ed esaminare un altro aspetto, forse il più delicato:«Avrai ascoltato anche tu il monito del Santo Padre, che richiama il valore simbolico del Colosseo come monumento al sacrificio dei martiri cristiani. Che cosa pensi di rispondere?». «Dirò, ma solo se necessario, che il Colosseo c’entra fino a un certo punto con la storia dei cristiani. I romani, che lo costruirono, erano pagani. I gladiatori, che ci andavano a morire, venivano da tutto il mondo e spesso erano schiavi. Scavando tra le rovine del Colosseo, saltano fuori le ossa di immigrati come quelli mandati oggi ad annegare nel canale di Sicilia. Soltanto un regime di cartapesta come il fascismo poteva lasciar passare l’idea del Colosseo quale monumento alla cristianità e della croce messa al posto della statua di Nerone».
Un così screanzato accenno alle parole di fede del Santo Padre aveva sinceramente addolorato il Presidente, che tornò a sedersi alla scrivania e sostò in raccoglimento con la guancia appoggiata a una mano. Il Capo dello Stato era certo che il Successore, l’uomo che si apprestava a liquidare una delle maggiori testimonianze della storia antica, quei luoghi non li aveva mai visitati. Se lo avesse fatto, malgrado l’ignoranza che aveva dimostrato, forse avrebbe potuto ripensarci. Anche perché, mormorò il Presidente: «Questa non è privatizzazione, è nei fatti una demolizione!». Così dicendo, provò ad avanzare un’ultima obiezione politica, prima di arrendersi. «Ma come farai se in Parlamento dovessero mancarti i voti della corrente di Ino? Ti rendi conto che non è sicuro che avresti la maggioranza?». «Nessun problema, Presidente. Il decreto passerà con l’aiuto determinante del Movimento Tanto Peggio. A mali estremi...», concluse, con un sorriso da brigante che il Capo dello Stato riconosceva, avendolo visto in passato sui volti di certi padri della patria entrati nella storia.
La conversazione si chiuse così. Non c’è bisogno di dire chi uscì vincitore in quella giornata storica in cui l’esperienza e la tradizionale prassi repubblicana avevano dovuto piegarsi alla forza della realtà. Il Successore lasciò a passo svelto il Quirinale e decise di farsela a piedi per smaltire la tensione. Attraversò piazza Venezia, risalì per via del Plebiscito, dove era la casa romana di Berlusconi con la bandiera sdrucita che pendeva da un balcone, ma in largo di Torre Argentina cambiò idea: vide una Smart del car sharing parcheggiata in divieto di sosta, la prenotò con il cellulare, ci montò su e se ne andò, mentre le guardie arancioni salivano mestamente sul tram numero 8. Nel pomeriggio, recapitato da un ragazzo di una società di pony express - il Successore non si serviva dei motociclisti della Presidenza - il testo del decreto arrivò al Quirinale per essere firmato dal Presidente.