Una stazione della metro C sarà intitolata al partigiano nero che morì combattendo i nazisti in val di Fiemme. L'assemblea Capitolina approva la mozione. Ecco come nasce la proposta, che collega le proteste del Black Lives Matter alla guerra di Liberazione, attorno all'esile figura di un italiano senza cittadinanza

L’uccisione di George Floyd lo scorso 25 maggio a Minneapolis è stata la pietra di inciampo per un concatenarsi di situazioni storiche irrisolte in tutto il mondo e anche nel nostro Paese che ha visto soprattutto intorno alla richiesta, da parte di Luca Paladini dei Sentinelli di Milano, di rimuovere la statua Intro Montanelli dagli omonimi giardini milanesi, il momento più furente di uno scontro che come al solito si è risolto all’italiana, perdendo l’occasione per destrutturare il comune senso del pudore intorno al fascismo nel nostro Paese.

Per Montanelli sono valse le attenuanti generiche, il contesto utilizzato come dichiarazione salvifica di innocenza, i numerosi esponenti di destra e di sinistra che lo hanno difeso dalla “furia dei nuovi talebani” e l’essere stato lui un venerato maestro del giornalismo. Archiviata la polemica, Indro e la cosiddetta «sposa bambina» trattata come «un docile animaletto» sono tornati nelle sabbie mobili della rimozione collettiva.
Roma è capitale tra le altre cose anche della rappresentazione plastica del regime: con le sue vie inaugurate da Benito Mussolini, la città capovolta e sventrata dall’idea di ricreare la Capitale dell’Impero mostra aperte tutte le sue cicatrici.
 
Quello che i turisti ammirano e i romani distratti ignorano è la carne viva di tutto ciò che non abbiamo risolto del ventennio e le azioni dimostrative disturbanti del movimento Black Lives Matter a tinte rosa, lavabili, hanno fatto emergere tutto lo scandalo per quello che rimane vivo, immune, intoccabile nelle nostre città. Un corpo sacro e venerato del senso comune, un liquido amniotico dove il fascismo prospera e si alimenta di tutto quello che non abbiamo risolto - dove ad esempio «l’immagine fascista della romanità diventa tout court l’immagine di Roma» come scrivono Andrea Giardina e Andrè Vauchez nel saggio “Il mito di Roma” (Laterza) - tanto da far emergere nel 2020 l’urgenza di destrutturare la narrazione tossica della capitale d’Italia che, avviluppata dal senso di impunità e regalità mussoliniana, non solo non fa i conti col suo passato ma vive il suo presente amplificando le sue contraddizioni. Roma è intoccabile come lo era al tempo del Duce che, nonostante il suo iniziale odio che lo portò a scrivere come un leghista della prima ora: «Roma, città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di preti e di burocrati non è il centro della vita nazionale, ma il centro della vita infetta della nazione», gli ha donato uno strato di protezione della forma urbis e della forma culturale.

Sarà per questo motivo che quando i ragazzi del Black Lives Matter Roma, insieme con la rete Restiamo umani, hanno chiesto con uno striscione di cancellare via dell’Amba Aradam, arteria cittadina che collega Porta Metronia con Piazza San Giovanni in Laterano, inaugurata da Mussolini in persona il 21 aprile del 1936 per celebrare la vittoria «italiana» nella battaglia etiope avvenuta sul monte Amba Aradam, in cui «i nostri bravi ragazzi» guidati dal generale Pietro Badoglio per l’imperitura gloria dell’Impero usarono armi chimiche, lanciafiamme, bombe al veleno sugli etiopi, ho immaginato che la fermata della Metropolitana C che sorge a pochi metri dalla via contestata, potesse essere intitolata a Giorgio Marincola, il partigiano nero, nato in Somalia, cresciuto a Pizzo Calabro, trasferitosi a Roma, arruolatosi nella resistenza col Partito d’Azione e morto in Val di Fiemme durante l’ultimo eccidio nazista compiuto nel nostro Paese, la cui figura è raccontata nel libro “Razza partigiana” (Iacobelli) di Lorenzo Teodonio e Carlo Costa.

La storia di Giorgio che sceglie con amore da che parte stare, pur non essendo un cittadino italiano come gli altri, perché figlio di una relazione impura tra un italiano e una somala, non pienamente cittadino perché nero, ci regala una lezione di universalità di quei valori che la morte di Floyd ci ha costretto a riconsiderare e che ci obbliga a revisionare.

La proposta è stata affidata ad uno status di Facebook, che sa essere uno strumento meraviglioso di moltiplicazione di idee ed in pochi minuti è stata condivisa da centinaia di persone. Quell’idea istintiva dopo poco è divenuta una petizione lanciata su change.org e ha fatto si che si creasse una piccola Armata Brancaleone composta da Antar Marincola, nipote di Giorgio, Paolo Masini, Amin Nour di Nibi, Paolo Barros e i ragazzi del Black Lives Matter Roma, una piccola armata che ha creato le condizioni affinché il Movimento Cinque Stelle e il Partito Democratico nell’Aula Giulio Cesare votassero una mozione che intitolerà la fermata Ipponio della Metro C a Giorgio Marincola e risemantizzerà via dell’Amba Aradam che non cambierà nome ma sarà indicata come «luogo dove l’esercito italiano compì un grave eccidio coloniale delle popolazioni etiopi». Queste due azioni non rappresentano un simbolo ma sono l’inizio di un percorso. Giorgio Marincola sarà il primo partigiano, medaglia d’oro al valor civile, a vedere intitolata un’opera infrastrutturale di nuova fabbricazione, tra i palazzi del quartiere Appio Latino che ospitavano i dipendenti del Ministero delle Colonie e una via che per Mussolini rappresentava «l’alta significazione del percorso coloniale». Un partigiano nero che con la sua esile figura è riuscito decenni dopo a collegare Roma, Minneapolis e Addis Abeba, la guerra di Liberazione al Black Lives Matter, la destrutturazione del passato coloniale al futuro della città.

Questa vittoria nata per caso dimostra quanto le discussioni sulla «cancel culture» e sul «politicamente corretto» siano qui da noi la cartina tornasole di chi veda nel sovvertimento di una quotidianità ingiusta, di una storica sottomissione delle donne, dei neri, delle minoranze religiose, dei movimenti GLBTQ+, un pericolo per la fine del proprio privilegio bianco e mascheri l’inversione di un canone con l’asserita privazione di libertà individuali. Come se in questi decenni la cultura patriarcale, il fascismo normativo della nostra società e le disparità pianificate nei confronti delle donne non siano state il vero pensiero unico, la vera cultura dell’annientamento e del merito.

Giorgio ha combattuto fucile in spalla per una patria che non lo riconosceva come figlio legittimo, ha perso la vita per una Costituzione che doveva ancora essere immaginata, dimostrando che non è il luogo di nascita a farci cittadini, non è il colore della pelle a determinare un’identità. 

A Roma si è strappata una pagina di un libro antichissimo. E si è scritto un finale diverso che ha chiuso un primo capitolo dell’appropriazione culturale di chi l’ha stravolta durante il Ventennio rendendola il salotto marmoreo di un impero di cartone fatto di marce e fasci littori. Strappando la sua vera identità meticcia, proletaria, popolare che anche nelle sue vestigia dell’età romana non era tronfia ma carica di colori, odori, lingue, stravaganze che come ricostruiva Jerome Carcopino «ricordava per la sua intensità un suk arabo».


Tag
LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il rebus della Chiesa - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso