Un papa riformista. E un grande comunicatore. Due volti fondamentali di quel prisma sfaccettato e complesso che è stato il pontificato di Francesco, capace come pochi altri di infondere speranza tra i fedeli e i non credenti. E, appunto, di comunicare una visione e una missione. A partire letteralmente dall’inizio, con l’adozione – da parte di un gesuita – di un nome pontificale ispirato a san Francesco d’Assisi (come è stato ricordato anche dal presidente Sergio Mattarella nel suo appassionato commiato). Ovvero, l’esemplare sintesi “nominalistica” (perché i nomi sono conseguenza delle cose, come dicevano gli esponenti della filosofia scolastica medievale) della sua concezione teologica e politica: la «Chiesa degli ultimi» e della prossimità, la cura per il creato (l’ambiente, “casa di tutti”, e i beni comuni) e l’accorato pacifismo.
Così, assieme alla sua generosità umana, ha messo al servizio di questa ispirazione dottrinale uno straordinario talento comunicativo e un poderoso storytelling. Dove si riflettevano anche le sue radici geografiche – quelle del primo successore di Pietro proveniente dall’America latina – e uno sguardo globale attento alle periferie del Pianeta, molto critico nei confronti degli oligarchi del tecnocapitalismo e delle degenerazioni del neoliberismo anglosassone. Con le conseguenti ambivalenze (e qualche apparente contraddizione), spiegabili proprio nei termini della cultura d’origine, come quella di un approccio ad alcune tematiche piuttosto “populistico” e, al contempo, un orientamento transnazionale e inclusivo, sempre solidale coi migranti, i poveri e i marginali, all’antitesi – in poche parole – dei leader e dei partiti neopopulisti occidentali.
Di qui sono derivati il linguaggio estremamente diretto – opposto al formalismo curiale – e la comunicazione “pop” di Jorge Mario Bergoglio (dalle telefonate e i tweet alle “comparsate” in tv): le strade per cercare di arrivare a tutti, nella maniera più aperta ed estesa possibile; non senza qualche scivolone, specie lessicale, specchio anche di una certa esuberanza del carattere.
D’altronde, la liturgia e il rito sono (anche ed eminentemente, in certi casi) degli atti comunicativi, e lo hanno mostrato le sue esequie, che rientrano in una delle fattispecie per antonomasia degli «eventi mediali», la categoria elaborata a inizio anni Novanta dagli studiosi Daniel Dayan ed Elihu Katz. La lunga diretta televisiva, gli applausi (che dagli show sono passati direttamente all’interno dei funerali), la – legittima – emozione incontenibile, perfino i selfie (assai discutibili, invece, data la circostanza) hanno disegnato i contorni di un media event di quelli che fanno, giustappunto, la storia. E hanno pure fatto da sfondo alla finestra di opportunità per una sorta di «diplomazia funebre».
Non è dato ancora sapere se, al netto della potenza simbolica di alcune immagini relative agli incontri e colloqui (più o meno) improvvisati fra i leader durante i funerali, ne sortiranno degli effetti concreti. Nondimeno, in questo caso è andato in scena uno “spettacolo” che sembrava un distillato del più puro spirito gesuitico, capace di tenere insieme gli umili e i “grandi della Terra”, e che è parso a molti l’ennesima vittoria (postuma) di Papa Francesco, instancabile animatore di iniziative di pace.