L'ultimo della lista infame si chiamava Alberto. Travolto a 19 anni mentre portava una pizza. Il sindacato: «Sfruttamento inaccettabile. Qualche segnale del governo era arrivato, ma tutto è caduto nel dimenticatoio»

Morire consegnando una pizza. Morire da rider. La gig economy conta i suoi primi caduti. L’ultimo martire involontario del lavoro del nuovo tipo è delle ultime ore. Si chiamava Alberto Piscopo Pollini, era uno studente dell’Alberghiero di Bari e aveva 19 anni. La sua esistenza è stata falciata sabato scorso intorno alle 22.30 – orario di fuoco per i ciclofattorini digitali - quando un’auto portata da un altro ragazzo l’ha travolto mentre sfrecciava, col suo scooter, per recapitare al cliente in tempo utile la cena ordinata da casa.

Non è la prima tragedia del genere dalle nostre parti, senza considerare gli incidenti non mortali. Il 6 settembre un dramma analogo è capitato a un 29enne di Pisa, Maurizio Cammillini, che s’è schiantato in motorino contro un palo. Doveva consegnare un fritto e due panini; correva perché, se avesse fatto ritardo, avrebbe pagato una sanzione di tre euro come già accadutogli il giorno prima. Per lui non c’è stato nulla da fare. Si è salvato, invece, a maggio (ma ha perso una gamba) Francesco Iennaco, 28 anni: è finito sotto un tram a Milano mentre lavorava, in quel caso, con la bicicletta.

Ecco le prime morti bianche nelle fila dei riders italiani, zaino termico in spalla, ancora in attesa di nuove garanzie e diritti e di una forma contrattuale che li liberi dal precariato estremo. Duro il percorso di questi post-proletari on demand. “Lo sfruttamento che decine di migliaia di giovani vivono quotidianamente è inaccettabile. Qualche segnale di attenzione era arrivato, da parte del governo, ma tutto è caduto nel dimenticatoio” ha commentato l’Usb (Unione sindacale di base) all’indomani della morte di Pollini.

Dopo mesi di trattative, il confronto intrapreso dal governo sulle tutele da assicurare ai lavoratori 4.0 mostra infatti la corda. L’ennesima speranza frustrata è del 7 novembre scorso, l’ultimo rendez-vous plenario tra le parti.

Il tavolo promosso dal Ministero dello sviluppo economico coi sindacati e le principali piattaforme del food delivery (da Just Eat a Deliveroo, da Glovo a Uber Eats, da Social Food a Foodora) non ha dato frutti. Lo stallo appare senza uscita, nonostante Luigi Di Maio ne avesse fatto una delle bandiere programmatiche e delle pietre d’angolo del “cambiamento”, addirittura la sua prima sortita pubblica da neo-ministro.
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Il capo politico del Movimento 5 Stelle, alle prese col reddito di cittadinanza, sembra aver messo un po’ in secondo piano la causa dei vulnerabili per eccellenza nell’economia dei lavoretti, già stornata, a suo tempo, dal Decreto Dignità. Il traguardo per un accordo complessivo era stato fissato a dicembre. Staremo a vedere. “Il Ministero redigerà una proposta che sia in grado di sintetizzare le diverse posizioni finora emerse, valorizzando come sempre il confronto con i rappresentanti delle aziende, con i rider e con le parti sociali intervenute al tavolo" è questa una delle ultime note ufficiali uscite dal suo dicastero.

È irrisolta la necessità di giungere a una soluzione che garantisca un salario orario dignitoso (oggi si viene spesso pagati a consegna), sulla falsariga o meno di quanto prevede il contratto collettivo nazionale della Logistica come vorrebbero Cgil, Cisl e Uil. Manca tuttora un minimo di welfare dedicato: una piena assicurazione Inail, contributi Inps che aprano a un’eventuale indennità di disoccupazione, un monte ore garantito. E poi i diritti di assemblea e una maggiorazione retributiva se si effettuano consegne con la neve o sotto la pioggia, se si lavora di notte e nei festivi. Non dimenticando l’abolizione del ranking: i riders raccontano di uno strano algoritmo “di fedeltà” che regola il flusso delle loro chiamate, anche se le aziende negano.

Nel frattempo si procede alla spicciolata. A fine novembre, per esempio, la Regione Piemonte ha approvato a maggioranza in Consiglio regionale un emendamento di Leu per vietare il cottimo nei servizi di consegna a domicilio. Perché, se pagato a prestazione, un tecno-fattorino si sente costretto a marciare il più velocemente possibile e mette a repentaglio la sua stessa vita. Il primo dicembre, nelle principali piazze italiane ed europee, è andata in scena una grande manifestazione di settore.

Bologna ha confermato la sua leadership: è nata qui la sigla sindacale più agguerrita (Union Riders), è stata redatta qui la prima proposta collettiva di categoria (o, perché no, “di classe”), la Carta di Bologna. Nella città di Dalla pure la politica si mostra riders-friendly. “Tra un po' arriva la neve, e con questa anche il rischio per la sicurezza dei lavoratori. Il governo ha avviato un dialogo con i riders e le loro piattaforme, ma cosa hanno fatto? Sono passati quattro mesi e siamo ancora in attesa. Senza dimenticare che questo è un tema che, se non fosse stato lanciato da Bologna, non si sarebbe mai aperto" ha detto l’assessore comunale bolognese al lavoro Marco Lombardo, del Pd. Il Comune ha messo a disposizione una sala dove potere attendere gli ordini delle consegne via app senza gelarsi per strada.

Lo stesso è avvenuto a Bergamo. “Anche nei settori più sfruttati del mondo del lavoro, anche nelle periferie produttive dove scompaiono i diritti e si afferma la presunta modernità del cottimo, anche laddove tutto sembra perduto, anche lì la lotta pagherà, come ha sempre pagato" ha rilanciato l’Union Riders Bologna, con una punta di ottimismo.

Tutto questo in un mercato che perde qualche pezzo. La tedesca (e rosa) Foodora ha deciso infatti di abbandonare la nostra penisola perché “poco redditizia”, troppo difficile. A rilevare le sue attività tricolori sarà la spagnola Glovo, che oltre al cibo trasporta anche altre merci. Il prezzo da pagare potrebbe essere altissimo: rischiano il posto duemila dipendenti, del resto mai assunti formalmente dalla multinazionale. Erano infatti – come accade quasi sempre in quest’ambito – lavoratori autonomi. Collaboratori occasionali, “freelance”. Ma esistono delle differenze.

L’inglese Deliveroo assicura un fisso orario lordo (12.80 l’ora) e segue la prassi delle collaborazioni occasionali con ritenuta d’acconto. Foodora (memorabile la frase del suo ceo italiano Gianluca Cocco, che dichiarò: “La nostra azienda è un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio” ) inquadra come co.co.co e paga 5 euro lordi l’ora, inclusivi di contributi. Glovo, che l’ha rilevata, prevede la collaborazione occasionale e 2 euro netti a consegna, con un sovrappiù di 60 centesimi per ogni chilometro percorso (e di 5 centesimi per minuto d’attesa al ristorante). La danese Just Eat ha un sistema misto (co.co.co e collaborazione occasionale) e un fisso di 6.50 netti all’ora. E non vi lavorano esclusivamente studenti universitari o “secondo-lavoristi”, ma anche numerosi quarantenni e cinquantenni che non trovano più nient’altro.

Lavoro autonomo o subordinato mascherato? Il dibattito resta aperto, ma i tribunali peninsulari hanno sposato al momento la prima linea. Di certo nessuna legge o contratto protegge ancora, come si dovrebbe, questi corrieri gastronomici, né riscatta i loro diritti da inizio Novecento e i loro compensi da fame.

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