In Germania si ipotizza che la frode dei diesel, smascherata in America, provocherà un calo dello 0,5 per cento del Pil. «La crisi può avere impatti limitati, se c'è un solo costruttore coinvolto, o giganteschi se si scoprirà che altri hanno fatto lo stesso»

Martin Winterkorn, il capo del Gruppo Volkswagen, si è dimesso. Il suo regno si è infranto sul "dieselgate”, lo scandalo delle centraline taroccate dei motori turbodiesel che sconvolge il pianeta delle quattro ruote. Ma adesso c'è chi teme un effetto-domino, con ricadute negative non solo sul settore automotive, che in Germania occupa un lavoratore su sette. A pagare dazio per la frode scoperta negli Stati Uniti, secondo alcuni osservatori, rischia di trovarsi buona parte dell'industria manifatturiera tedesca. I cui ricavi rappresentano quasi la metà di tutto il fatturato industriale europeo. 

Gli eventi di questi giorni stanno incrinando l'immagine del made in Germany, che fino a domenica scorsa era considerato un'intrinseca garanzia di qualità e sicurezza. Non lo sostengono i detrattori della più potente – e talvolta, arrogante – nazione d'Europa, ma gli studiosi indipendenti del Deutsches Institute fur Wirtschaftsforschun, l’Istituto nazionale per la ricerca sull’economia. Allarmati per il danno permanente che potrebbe ricevere il marchio, finora garanzia di qualità, del "made in Germany”. «Anche altri esportatori tedeschi potrebbero rimanere penalizzati dallo scandalo, visto che finora VW era considerata un valido esempio della qualità tedesca», è il timore del presidente Marcel Fratzscher, che invita il sistema ad attrezzarsi per contenere i danni, oltre che per il gruppo Volkswagen, per tutti gli esportatori del made in Germany. In realtà, il dieselgate non è il primo grosso pasticcio combinato dai big dell'industria tedesca. Un'altra icona come la Siemens è inciampata infatti – e 19 manager della multinazionale sono stati rinviati a giudizio nel novembre 2014 – per la maxitangente che sarebbe costata, tra bustarelle e mancati incassi, ben 70 milioni alla società greca di telecomunicazioni Ote. 
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Qualche commentatore, in Germania, ha ipotizzato che lo sgarro dei diesel smascherato in America provocherà un calo dello 0,5 per cento del Pil tedesco. Per Giuseppe Berta, che insegna Storia dell'Economia alla Bocconi, si tratta tuttavia di numeri sparati a caso. «E' impossibile valutare adesso gli impatti negativi di questa truffa micidiale, anche perché mai si era verificato uno scandalo di tale portata e non ci sono termini di paragone», dice. Di sicuro, nell'immediato, ci sarà una ricaduta sul settore dell'auto: «Proprio ora che si vedevano segnali del ritorno all'acquisto dopo un lungo periodo di stasi, la prudenza e la tendenza al rinvio potrebbero tornare a imporsi.  E per i prevedibili comportamenti opportunistici dei clienti: chi stava valutando l'acquisto di una vettura del gruppo VW spinta da un motore turbodiesel molto probabilmente si presenterà in concessionaria chiedendo un forte sconto sul prezzo di listino», prevede il docente della Bocconi.  Ci saranno anche dei vincitori? «Probabilmente sì, ad esempio chi ha spinto forte sulle motorizzazioni ibride, come la Toyota, potrebbe avvicinarsi con maggior favore alle auto equipaggiata anche da un propulsore elettrico».

La politica ha messo limiti alle emissioni e non alle potenze. Forse sta qui l'origine degli imbrogli clamorosamente venuti alla ribalta. Spiega Andrea Boitani, che insegna Economia politica all'Università Cattolica di Milano: «La limitazione delle potenze - con un plafond a 130-140 cavalli - avrebbe avuto più senso, alla luce dei limiti di velocità sulle strade. Ma era odiata dalle case automobilistiche, in particolare da quelle tedesche che fanno auto di media-alta gamma, che l'hanno osteggiata.  E' chiaro che una scelta del genere per Audi, Bmw, Mercedes o per Ferrari in Italia sarebbe un bel problema, le costringerebbe a una revisione completa della strategia e del modello di business. Però se si verificherà che tante marche hanno imbrogliato, si dimostrerà anche l'impossibilità della scommessa che consiste nel produrre auto sempre più potenti ma che consumano ed emettono sempre di meno. Semplicemente, ciò non è vero, al di là delle truffe». 

Le solide, potenti e affidabili automobili sono il fiore all'occhiello del colosso industriale tedesco e il 40 per cento di tutte le vetture del segmento "premium” vendute nel mondo escono dagli stabilimenti delle teutoniche. «La crisi può avere impatti limitati, se c'è un solo costruttore coinvolto, o giganteschi se si scoprirà che altri hanno fatto lo stesso», sostiene Boitani. «Se il problema è solo di Volkswagen, può accadere questo: alcuni modelli diventano non vendibili, crolla la sua quota di mercato e sale quella di altri marchi alternativi. Naturalmente ciò ha impatto sull'indotto di VW, con una fetta rilevante in Italia, dove spesso  VW è subentrata a Fiat come committente per parti e componenti. D'altro canto, l'indotto più orientato verso altre Case potrebbe aumentare il lavoro». Secondo l'economista della Cattolica il problema diventerebbe «molto severo qualora le auto non in regola fossero di molte altre marche. Si verificherebbe uno strozzamento dell'offerta, con i clienti che non comprano e aspettano». Un brutto bastone nelle ruote della ripresa economica.

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