Il papa è andato in analisi e questa informazione nei giorni scorsi dai media è stata considerata una notizia. In realtà non lo è. Sono passati quattro anni dalla prima volta che Jorge Mario Bergoglio ha svelato di aver avuto bisogno di un supporto psicanalitico a un certo punto della sua vita in Argentina, dove il ricorso alla psicologia e alla psicoanalisi è peraltro molto più popolare e culturalmente accettato che in Italia. Il trauma della dittatura e dei suoi 30mila desaparecidos ha lasciato profonde ferite sia personali che collettive e nessuno negli anni successivi ha pensato di poterle affrontare da solo, nemmeno un superiore provinciale dei gesuiti qual era Bergoglio quando si rivolse a una psicoanalista.
A colpire però è che la questione delle esperienze psico-sanitarie del Papa torni fuori proprio ora che il tema della salute mentale in Italia va annunciandosi come una delle conseguenze del Covid-19 più catastrofiche e purtroppo più negate. I danni psicologici causati dalla pandemia, specie nelle generazioni più giovani, sono stati infatti del tutto ignorati nelle priorità emergenziali del governo, a differenza delle scelte di altri paesi europei. In Francia, dove il ricorso alla psichiatria è aumentato nel 40% nel solo 2020, Emmanuel Macron ha annunciato che, finché durerà lo stato di emergenza, il sistema sanitario garantirà l’accesso gratuito a dieci ore di cure psicologiche per la fascia di popolazione compresa tra i 3 e i 17 anni. Da noi è rimasto invece inascoltato il grido d’allarme dell’ordine degli psichiatri italiani, che ha denunciato l’invisibile iceberg del disagio psichico dovuto all’esperienza della pandemia, dichiarando di aspettarsi nei prossimi mesi almeno 800mila nuovi casi di depressione tra i contagiati e i loro parenti, cioè chiunque. Nel coro degli “andrà tutto bene”, sin dall’inizio ci siamo predisposti a negare il trauma.
Nel 2011 il critico Daniele Giglioli dava alle stampe un libro intitolato “Senza trauma”, dove analizzava una generazione di scrittori (definizione ora piuttosto estensibile) che non avendo l’esperienza di un trauma vero da cui far partire le proprie narrazioni, era disposta a inventarselo e persino a considerare traumatica proprio l’assenza del trauma. Oggi il trauma, inteso come evento che spezza i cardini della normalità in modo fulmineo, senza dubbio c’è. È conseguenza della rivelazione di un nemico ignoto e invisibile, della paura di morire e veder morire, della mancata gestione del lutto in un contesto in cui la ritualità è stata sospesa e soprattutto del cambiamento forzato e in molti casi radicale delle abitudini quotidiane di vita, studio e relazione.
Eppure c’è di più. Le guerre iniziano e finiscono, le catastrofi naturali hanno come epilogo la ricostruzione e gli eventi sanguinosi sono eccezionali per definizione, ma il cambiamento che è intervenuto con la pandemia assume ogni giorno di più i tratti di una nuova normalità. Fino a quando la categoria del trauma basterà a definirlo e a definirci?
Nella ricerca di questa risposta, ricordare che persino il Papa cinquant’anni fa è andato a farsi aiutare da una specialista assume il peso di un evento simbolico, carico di significati collettivi e per molti versi rivoluzionari, almeno sul piano del metodo. A lungo lo psicoanalista accanto al lettino e il sacerdote nel confessionale sono stati infatti due ruoli competitivi che partivano da presupposti antitetici. Fare i conti con Dio o con l’Io? Fare l’esame di coscienza o quello dell’inconscio? Preservare il senso di colpa come prezioso segno d’allarme o elaborare i comportamenti in un’ottica di trasformazione? L’Italia, cattolica in ogni accezione del termine, è terra specializzata in rimozioni collettive, non in prese di coscienza, e l’esortazione al perdono delle colpe personali ha spesso fatto il paio con il comodo omissis di quelle comunitarie. Il Covid-19, come innesco di nuova normalità, può rompere il meccanismo patologico di negazione e oblio, offrendoci una preziosa occasione per passare dal gioco della colpa a quello della responsabilità.