C’è una linea diretta che collega le svarionate televisive alla Pio e Amedeo, gli editoriali che strillano alla dittatura del politicamente corretto e le polemiche sul presunto revisionismo di Biancaneve. Questa linea è il potere che attribuiamo alle parole, ma soprattutto il potere che le parole attribuiscono a noi; non a tutti però, ma solo chi può permettersi di sceglierle, per se stesso e per gli altri. Lungo quella linea, tutt’altro che sottile, chi lavora con le parole sa che controllare il linguaggio vuol dire controllare il mondo e che la battaglia più importante è impedire all’altro - all’antagonista ideologico - di levarti di bocca le tue parole e metterci le sue.
La cosiddetta libertà di continuare a dire ricchione, bella figa, handicappato e negro non è altro che la pretesa di tenere in piedi un mondo in cui le parole per dire chi sono gli omosessuali, le donne, i disabili e le persone di altra etnia siano solo quelle scelte dagli eterosessuali, dai maschi, dai bianchi e dagli abili, che si ergono a norma e lasciano agli altri il folkloristico compito di essere l’eccezione. Per proteggere la rivendicazione di questo dominio, da anni assistiamo alla costruzione di fantasmi lessicali che esistono solo in forza della frequenza con cui vengono nominati. Le espressioni “cancel culture” e “politically correct” sono un buon esempio di questa attitudine a dare per reali fenomeni che nella realtà non esistono. Entità concettualmente misteriose anche solo per il fatto di essere state generate in contesti culturali che non sono quelli italiani, la cancel culture e il politically correct assumono da noi la forma di nebulose minacce censorie che ci assalgono da ogni cespuglio, indefinibili e quindi più temibili.
Come accaduto con il fantomatico gender, con i mai trovati anarco-insurrezionalisti o altri oggetti lessicali non identificabili, l’uso di queste espressioni per proteggere il proprio sistema di potere rivela però un ritardo dello sviluppo intellettuale. Se infatti i bambini a un certo punto dismettono la pratica di farsi compagnia rivolgendosi all’amico immaginario, quelli che non hanno superato lo stadio del pensiero puerile li riconosci perché da adulti parlano ancora con la sua versione incancrenita: il nemico immaginario. Autorevoli editorialisti che occupano da anni le prime pagine dei quotidiani si dipingono come fragili voci minacciate da una misteriosa congrega censoria, che però così potente non deve essere, dato che essi continuano indisturbati a scrivere. Comici televisivi da prima serata si ergono a vittime perseguitate da un’invisibile polizia linguistica, che però non appare mai sul palco a sanzionarli mentre definiscono gli altri usando il proprio privilegio come parametro di normalità. Politici che della ferocia hanno fatto la propria cifra comunicativa dichiarano di sentire violentato il proprio bambino interiore ogni volta che si scorge all’orizzonte un minimo tentativo di riflettere - non modificare, basta volerci riflettere - sull’immaginario delle fiabe.
Il gruppo dominante, per proteggersi, non ha alcuno scrupolo a dipingersi come fragile e in pericolo, decretando le sue vittime come perniciosi liberticidi ogni volta che provano a minare il rapporto di potere consolidato. Vorrei dire loro che non esiste alcuna minaccia alla supremazia del maschio bianco eterosessuale senza disabilità e che forse dovrebbero smettere di descriversi come cuccioli di visone davanti ai feroci pellicciai, ma non sarebbe del tutto vero. La minaccia alla pretesa di lasciare le parole del potere esattamente dove sono già esiste, solo che non si chiama cancel culture e nemmeno politically correct. Si chiama evoluzione sociale, inclusione e allargamento dei diritti. Se la libertà diventa l’opposto della sensibilità e del rispetto, se rivendicarla significa negare ad alcuni il riconoscimento di cui godono tutti gli altri, il problema non sono le parole, ma le intenzioni che ci stanno dietro. Con la parola si creano mondi e per capire che occorre sceglierle bene basterebbe ricordare che in quei mondi dobbiamo andare ad abitarci.