Il Parlamento ha un gran daffare. Per forza, con questa pioggia d'accuse che la magistratura gli rovescia addosso. Colpa della condotta malandrina dei nostri politici? No, colpa di una garanzia costituzionale: articolo 68. Dove c'è scritto che occorre il disco verde delle Camere per intercettare, perquisire, arrestare i loro membri. Ma guardacaso il Parlamento fa sempre lampeggiare il rosso del semaforo, anche perché altrimenti le sedute si terrebbero davanti a banchi vuoti: per il momento sono otto gli onorevoli che senza il mantello dell'immunità entrerebbero in galera, ma questa cifra balla, sale di ora in ora.
Il sì all'arresto del deputato Pdl Alfonso Papa ha interrotto una lunga tradizione (da 27 anni la risposta era sempre un no tonante), però non è servito a lenire l'impopolarità dell'autorizzazione parlamentare (l'80 per cento degli italiani se ne sbarazzerebbe volentieri). Le cause? In primo luogo quello stesso giorno il Senato ha invece graziato Alberto Tedesco del Pd, ribadendo la vecchia regola non scritta. In secondo luogo il gioco dei sommersi e dei salvati obbedisce esclusivamente a calcoli politici, a regolamenti di conti fra i partiti e fra le correnti di partito: il fumus persecutionis non c'entra un fico secco. In terzo luogo l'onda di sdegno per la nuova Tangentopoli travolge prudenze e garantismi. La prima cominciò con l'arresto di Mario Chiesa; stavolta tocca a Papa. A quanto pare siamo saliti di livello.
Ma c'è soprattutto un sentimento offeso dalle immunità parlamentari: l'eguaglianza. Quando la politica argomenta che la carcerazione preventiva colpisce spesso gli innocenti, quando aggiunge che prima d'usare le manette bisogna attendere la chiusura dei processi, dimentica che le carceri italiane ospitano 30 mila detenuti in attesa di giudizio. Perché noi sì e loro no? La risposta dettata dalla Costituzione è perentoria: per il principio della separazione dei poteri. Così come il Parlamento non può ribaltare in via legislativa una sentenza, non spetta ai giudici stabilire la composizione delle assemblee elettive.
Tuttavia il problema non sta nel principio, bensì nella sua applicazione. Sta nel voto segreto che protegge tali decisioni, impedendoci di valutare l'operato dei nostri (si fa per dire) rappresentanti. Sta nei tempi biblici con cui le Camere rispondono (quando rispondono) al potere giudiziario. Sta nell'istinto corporativo che scatta in questi casi: per dirne una, in nome dell'insindacabilità la Camera ha stoppato i giudici 92 volte su 100, il Senato 95 volte su 100. Sta infine nella regola che trasforma l'imputato in giudice di se medesimo. La stessa regola che permette a deputati e senatori di decidere sulla validità della propria elezione, sulla misura dell'indennità, sulle cause d'incompatibilità (nel 2008, all'avvio della legislatura, erano 172 i parlamentari con doppio o triplo incarico, alla faccia dei divieti).
E allora teniamoci il principio, però cambiamo le regole del gioco. Affidiamo queste scelte a un organo terzo e imparziale, come la Consulta. Dopotutto in Francia il Conseil constitutionnel vigila sulla regolarità delle elezioni fin dal 1958. E già che ci siamo, sminiamo le nostre istituzioni da tutti i privilegi analoghi. È il caso degli stessi giudici, che attraverso il Csm dovrebbero autoinfliggersi sanzioni disciplinari. Degli ordini professionali rispetto ai loro iscritti. Del governo, quando nomina un quarto del Consiglio di Stato o 39 membri della Corte dei conti, benché tali magistrature dovrebbero difenderci dagli abusi del governo. È il caso dei sindaci, che hanno il potere - addirittura - di licenziare il proprio controllore, ovvero il segretario comunale.
L'antidoto? Una massima che suonava in bocca a Cicerone: "Nemo iudex in causa sua", nessuno giudichi se stesso. Altrimenti il giorno del giudizio sarà sempre un giorno di festa.