Una retata e l’accusa infame di “sodomia”. Diciasette fermati dalla Polizia in sei mesi fanno precipitare il Paese in un clima di caccia alle streghe. Per loro un appello e la mobilitazione delle sigle Lgbt italiane. Mentre cresce il numero di omosessuali in fuga da Paesi che adottano leggi liberticide e perfino la pena di morte

Tunisi, giovedì 24 marzo. Sono le dieci di sera, ci sono venti gradi, il clima è mite e dieci ragazzi si ritrovano in un appartamento per stare insieme. Otto di loro sono uomini, gay, alcuni sono attivisti Lgbt locali, alcuni hanno meno di vent’anni. All’improvviso una retata: irrompe la Polizia, probabilmente avvisata dai vicini, e li arresta tutti. Per i ragazzi l’accusa è infame: “sodomia” con una pena che arriva fino a tre anni di carcere facendo leva sull’articolo 230 del codice penale tunisino. Per le due donne l’accusa è invece prostituzione.

Tra gli arrestati, ci sono anche tre studenti che erano già stati condannati e poi liberati per lo stesso “reato”, passando un mese in carcere, dove avevano subito grotteschi “test anali” e violenti abusi dalle guardie e dagli altri detenuti. Rilasciati grazie all’appello dell’avvocato Fadoua Braham, dopo tre mesi è arrivato il bis.

Ora c’è la possibilità che tutti i giovani siano finiti nel carcere di Mornaguia: il più grande e affollato del paese con il triste primato di meno di un metro quadro a persona e tra i più famigerati per la violenza, mettendo a grave rischio anche la loro incolumità fisica.

La retata di Tunisi è l’ultima di una lunga serie di fermi per omosessualità: 17 in sei mesi in tre differenti blitz. I dati ufficiali non ci sono, ma la rete di attivisti Lgbt del posto denuncia episodi di intolleranza e repressione sistematica. Un giro di vite dei diritti umani e detenzioni per omosessualità prima come eventi rari, ora sempre più frequenti, per soddisfare la parte più integralista e distrarre l’opinione pubblica.

«Non è concepibile che un paese che ha fatto una rivoluzione per liberarsi da una dittatura, perseguiti qualcuno non per quello che fa ma per quello che è: arrestare un gay, condannarlo perché è gay, liberarlo e poi arrestarlo di nuovo perché continua a essere gay è più che paradossale» s’infervora Pier Cesare Notaro de “Il Grande Colibrì”, il blog da dove è partita la raccolta fondi e l’appello seguito da Arcigay, Agedo, associazione radicale Certi Diritti e le onlus tunisine Mawjoudin, Damj e Shams insieme a decine di sostenitori.

Da mesi è vivo il dibattito e la campagna perché venga abolito il famigerato articolo 230 del codice penale. «Dobbiamo agire per aiutare i giovani in carcere a difendersi, e perché il messaggio arrivi chiaro anche allo Stato tunisino» continua Notaro: «Una tale concezione dei diritti umani esclude totalmente il paese dal carro della democrazia e, come sottolinea anche Human Rights Watch, il governo deve subito prendere provvedimenti perché non si ripetano abusi sugli omosessuali da parte delle forze dell’ordine».

L’AMORE PROIBITO IN 83 PAESI
Dopo la primavera araba partita proprio in Tunisia nel 2011, sono decine i migranti arrivati in Italia che chiedono la protezione internazionale perché gay e perseguitati. Storie di ordinaria discriminazione per chi scappa dall’Iran, Afghanistan, Marocco, Egitto, dove la migrazione è prevalentemente maschile perché le donne riescono a mascherare più facilmente la propria omosessualità.

Dopo minacce, violenze, segregazione e una vita d’inferno decidono di prendere un aereo o una nave per sfuggire alle violenze, ai soprusi, alle leggi repressive, alla pena capitale. Scappano anche dalla Russia, dall’Uganda, dalla Siria a causa delle discriminazioni sessuali.

In sette Paesi omosessuali e transessuali sono puniti con la pena di morte e in altri 76 vi sono pene detentive. Per questo il ministero delle Pari Opportunità italiano ha attuato una strategia in loro difesa e per dare supporto a chi chiede asilo tramite le associazioni.

Anche la Corte di giustizia europea esaminando il caso di tre ragazzi in arrivo dalla Sierra Leone, Uganda e Senegal, che avevano chiesto di essere accolti in Olanda, ha stabilito che i richiedenti asilo omosessuali possono avere lo status di rifugiato in Europa in virtù della discriminazione che subiscono nei Paesi dove l'omosessualità è un reato punito con una pena. Non una corsia preferenziale, ma il riconoscimento del pericolo e delle tutele di cui hanno bisogno. Perché il rischio per loro è l’oblio o peggio il rimpatrio.

A febbraio a Milano il Tribunale ha preso una decisione simile: ad un giovane nigeriano è stato riconosciuto lo status di rifugiato per la sua omosessualità. In un primo tempo, però, il ministero dell'Interno non aveva accolto la sua richiesta di asilo. Lui, però, che aveva dichiarato di essere stato costretto a lasciare il suo villaggio vicino a Benin City in seguito alla scoperta del proprio orientamento sessuale. Dopo la morte del padre e il suicidio della madre, conobbe un uomo che lo aiutò economicamente e con cui iniziò una relazione.

A questo primo rapporto, ne seguì uno con un altro uomo. E fu allora che «alcuni membri del villaggio, insospettiti da questa frequentazione, si introdussero a casa sua», scoprendolo con il compagno. Da qui, la decisione del giovane di fuggire, «per paura di perdere la vita» e comunque «perché in Nigeria l'omosessualità è reato». Una volta arrivato in Italia, si stupì nello scoprire che l'omosessualità non è vietata per legge. Ed entrò in contatto con l'associazione Les Cultures, che a Lecco si occupa di diritti dei migranti.

In Nigeria invece essere gay o lesbica è un reato punibile con pene che vanno da 10 a 14 anni, e per chi ha effettivamente una relazione è considerato un reato anche soltanto la pubblica notizia che una persona è omosessuale. In alcune zone del Paese, poi, si applica di fatto la Sharia, la legge coranica che prevede 100 frustate per gli uomini omosessuali non sposati oppure, per quelli sposati, un anno di carcere più la morte per lapidazione.

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