Masayuki Komatsu, l'ex commissario governativo giapponese soprannominato 'Achab', rimosso dall'incarico dal governo Koizumi proprio per il suo eccessivo entusiasmo (nel 2000, in occasione della conferenza di Shimonoseki, aveva definito le balene i 'bacherozzi del mare' e sostenuto il diritto alla diversità culturale: "Voi sbranate vacche, maiali e conigli, noi ci mangiamo le balene... e allora?") non sta più nella pelle. E commenta così la 'storica vittoria' del Giappone in occasione dell'ultima riunione della IWC, la Conferenza internazionale sulle balene: "Un primo passo verso la ragionevolezza. Noi giapponesi, che amiamo la carne di balena, non vogliamo la caccia indiscriminata, ma un suo rigoroso controllo. E poi a mettere a rischio la sopravvivenza di alcune specie di balene non siamo stati noi giapponesi, ma americani, russi e norvegesi.".
Komatsu ha rispedito al mittente anche le accuse che il Giappone avrebbe 'comprato' (in cambio di aiuti e finanziamenti) i voti di parecchi paesi minori, molti dei quali entrati solo di recente nella Commissione (che conta oggi 70 membri, contro i 16 con cui era nata nel 1946) e senza alcuna tradizione nel settore della caccia alla balena. "Siamo alle solite", si infuria Komatsu: "È stato il blocco protezionista a lanciare la prima grande campagna acquisti, negli anni '80, facendo entrare nella Commissione paesi come Monaco, Lussemburgo, Svizzera, persino San Marino. Tutti paesi che hanno contribuito a trasformare la Commissione in un'assise politica, ostaggio dei fanatismi di Greenpeace.".
Dati alla mano, Komatsu non ha tutti i torti. A differenza della Norvegia, che da molti anni si è chiamata fuori e prosegue quella che a tutti gli effetti è una caccia di frodo, il Giappone ha rispettato le regole, strappando deroghe e permessi speciali (le famose quote 'per la ricerca', un migliaio di balene uccise ogni anno), e corteggiando i paesi membri della Commissione. Così, a determinare il futuro di Moby Dick, oltre alle nazioni europee sopracitate, sono ormai paesi come Kiribati, la Mauritania o il Mali. Che lo scorso 16 giugno, riuniti dell'isoletta caraibica di S. Kittys e Nevine (anch'essa entrata di recente nella Commissione, sponsorizzata dal Giappone) hanno approvato una dichiarazione (peraltro non vincolante), in cui la moratoria alla caccia viene definita 'non più necessaria', e dove si indicano i cetacei come causa dell'impoverimento del patrimonio ittico e si definiscono le organizzazioni non governative (come Greenpeace) una 'minaccia'. Tutto ciò non deve trarre in inganno. A parte che per riprendere la caccia commerciale alle balene occorre una maggioranza di due terzi, la 'vittoria' del Giappone è solo politica.
Di fatto, socialmente e gastronomicamente, i giapponesi non sono più interessati alla carne di balena: i consumi sono in costante declino, e la carne delle migliaia di balene che il Giappone continua ogni anno a cacciare per motivi di ricerca (autorizzato dalla Commissione) finisce in scatola, come cibo per cani e gatti. O al macero. E nonostante le campagne di 'sensibilizzazione' nelle scuole ('Rieduchiamo i nostri bambini ai sapori tradizionali') e nuove forme di consumo (l'hamburger di balena) i giovani preferiscono la pizza.