Spie dovunque e povertà: così il sogno dell'Eritrea è diventato un incubo

Le buganvillee profumano i viali ordinati di Asmara, mentre il sole torna a splendere sulla capitale eritrea. Il vento si porta via una stagione di piogge scarse e gli abitanti bevono caffè ai tavolini all’aperto. Le parole si perdono nella frescura dell'altopiano e l'atmosfera pare rilassata. Ma la quotidianità inganna in Eritrea. Nulla è più fittizio della calma che si respira per le strade del più giovane Stato africano, nato nel 1991 dopo trent'anni di guerra per l'indipendenza dall'Etiopia. Tra gli edifici di architettura coloniale italiana, infatti, si consuma una delle più dure dittature del continente. Una prigione a cielo aperto, in cui tutti hanno un unico sogno: scappare.

Al momento dell'indipendenza non era così. Cresciuti nella consapevolezza della guerriglia, gli eritrei erano orgogliosi di essere finalmente liberi, certi di avere davanti un futuro radioso. Il presidente Isaias Afewerki, eroe della liberazione, era amato e garantiva prosperità. Afewerki, sostenuto dagli aiuti internazionali e dalle rimesse degli esuli della diaspora, prometteva sviluppo, una nuova costituzione e libere elezioni. Ma il conflitto, scoppiato tra Eritrea ed Etiopia nel 1998, ha bloccato ogni avanzamento economico e messo da parte le attese riforme democratiche. I due Paesi limitrofi si sono battuti in una guerra di trincea che in due anni ha fatto centomila morti. La retorica dei due governi raccontava di alcuni villaggi di confine contesi, nascondendo ragioni economiche, geo-politiche e di repressione del dissenso interno. Nonostante la fine delle ostilità, l'Eritrea non ha più ripreso il suo cammino. Non ci sono mai state elezioni ed il Paese è completamente militarizzato, preda dell'incubo di una nuova invasione etiopica e di costanti rumori di guerra con gli altri Paesi confinanti. Il governo si è trasformato in un regime monopartitico ed autoritario. Ha chiuso tutti i media indipendenti, ha espulso quasi tutte le agenzie umanitarie e rifiuta gli aiuti alimentari internazionali, perso in un'austera politica autarchica.

Ogni forma di opposizione politica e religiosa è stata repressa. Dal settembre 2001, Un popolo prigioniero della guerra che non c'è Spie dovunque e povertà: così il sogno dell'Eritrea è diventato un incubo di Emilio Manfredi undici politici di spicco sono in carcere, rei di aver chiesto un'apertura democratica. Secondo alcune organizzazioni per i diritti umani, solo tre di loro sarebbero sopravvissuti alle terribili condizioni di detenzione. L'Eritrea è un Paese pieno di gente disperata, che sopravvive a stento e ha paura a parlare. Ad ogni angolo c'è un informatore del governo. Per chi compie 15 anni, ogni giorno è scandito dal terrore. Le strade delle città e dei villaggi sono controllate da pattuglie di soldati armati fino ai denti: cercano tutti quei ragazzi che scappano dalla leva militare, imprescindibile per uomini e donne. Una coscrizione obbligatoria, con una data di inizio ma non di fine, che pare sempre più simile ad una deportazione di massa della gioventù, al fine di evitare qualsiasi forma di protesta.

Mentre la televisione di Stato mostra continue immagini di guerra e paventa minacce dai Paesi limitrofi, le ultime classi di scuola superiore e le università sono chiuse. Gli studenti vengono inviati nel campo militare di Sawa, a circa 300 chilometri dalla capitale. Secondo il regime, si tratta di un centro educativo-militare. Agli occhi delle organizzazioni umanitarie e nei racconti di chi scappa, è solo un terribile campo di concentramento per i giovani. Soprattutto per le ragazze, è un'esperienza devastante. La maggior parte di loro viene violentata e rimane incinta. Da Sawa si esce solo per andare al fronte, in attesa della battaglia contro un nemico che non ha nome né volto.

Chi scappa e viene acciuffato, finisce rinchiuso in un container in mezzo al deserto. Coloro che, invece, riescono ad arrivare al Mediterraneo e a prendere una bagnarola per Lampedusa, sanno che i genitori saranno arrestati e torturati. Per chi non muore di sete in mezzo al mare, comincia un nuovo incubo: racimolare 3.300 dollari da mandare in patria. Questo è il prezzo che il regime eritreo chiede, per liberare i familiari, ai suoi figli che non rimangono in trincea, a morire aspettando i barbari.

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