La Camera ai repubblicani, maggioranza risicata al Senato per democratici. Populisti e ultra conservatori dei Tea Party cantano vittoria. Ora per il presidente la strada è tutta in salita. La battaglia sarà sulle tasse e sulla riforma sanitaria. E si pensa già al 2012

Il panorama della politica americana è cambiato nel giro di una notte. E a segnalare da tempo che l'umore degli americani era cambiato, c'era il termometro che misura il favore verso il presidente Barack Obama.

Quando entrò alla Casa Bianca segnava una temperatura di 75 a favore del presidente. Prima di andare al voto segnava 44. Ecco allora il risultato delle elezioni di Mid Term di martedì 2 novembre. Il partito del presidente ha perso la maggioranza alla House of Representatives con uno svantaggio importante, di oltre 50 seggi, e l'ha mantenuta al Senato perdendo comunque oltre mezza dozzina di seggi.

E adesso la strada per il presidente che aveva acceso i cuori dell'America con «Yes, We Can» e aveva vinto con un grande margine del voto popolare nel 2008 è tutta in salita. Che cosa farà? Ripeterà l'invito alla collaborazione che ha avanzato negli ultimi giorni della campagna elettorale? E al tempo stesso sarà intransigente su quei due o tre punti del suo programma che ha sempre detto di voler difender a ogni costo (riforma sanitaria e tasse)? Sarà un balletto interessante a partire da domani, perché bisognerà vedere anche che cosa faranno i repubblicani: continueranno come hanno fatto nei passati 22 mesi dicendo sempre no a tutto e riuscendo a instillare negli americani il dubbio che la colpa di una ripresa lenta, una disoccupazione troppo alta, di investimenti al lumicino, persino i giochi di prestigio e gli imbrogli di Wall Street fossero tutti colpa di Barack Obama e non degli otto anni di deregulation di George W. Bush.

Non dipende solo dall'agenda politica che il Congresso dovrà gestire. Molto è legato agli equilibri che si creeranno dentro i due partiti. In casa democratica, soprattutto nei giorni immediatamente precedenti al voto, sono stati registrati malumori nei confronti di Barack Obama. La prima spia è un sondaggio nel quale quasi la metà degli americani che si sentono vicini al Partito Democratico, ritengono che la ricandidatura di Obama nel 2012 non sia automatica ma debba passare attraverso le primarie. La seconda spia si è accesa nel corso delle riunioni alla Casa Bianca intorno a metà ottobre tra i maggiorenti del partito e David Axelrod il consigliere anziano di Obama. Le critiche sono state dirette e di due tipi. Una di carattere personale sostiene che Obama si è occupato più di se stesso e del suo futuro che della sorte del partito e di molti candidati. La seconda è più diretta ai collaboratori presidenziali: sostiene che il gruppo è troppo piccolo, molto auto referenziale e non ha ascoltato le diverse voci che cercavano di suggerire che cosa fare.

In casa repubblicana la partita è tra i centristi e coloro che si rifanno ai Tea Party, tra l'anima che ha sempre considerato il compromesso il modo migliore per vincere perché si fanno gli interessi di una larga maggioranza di americani e i populisti cresciuti in fretta con lo slogan del meno governo, no alla tasse, chiudiamo Washington, viva il libero arbitrio. Sono questi ultimi i nuovi padroni del partito? È probabile che in una prima fase la pattuglia dei Tea Party farà sentire la propria voce e condizionerà il vertice, organizzando anche una corrente interna al partito nel nome di Tea Party. Nel Gop ci sono stati molti cambiamenti di posizione negli ultimi mesi. Basta guardare Karl Rove, il cervello che ha guidato George W. Bush per otto anni: quando la Tea Party Lady del Delaware, Christine O'Donnell, ha conquistato le primarie, espresse tutte le sue riserve sul personaggio senza storia e senza cultura politica e personale. Nel giro di 48 ore diventò un ardente sostenitore. E Michael Steele, l'afro americano messo alla guida del Grand Old Party dopo la vittoria di Obama, è stato svillaneggiato per mesi dai Tea Party e qualche settimana fa ha annunciato che se non fosse alla guida del partito sarebbe in strada al fianco di questo gruppo di ultra conservatori.

La battaglia sarà su questioni concrete fin da subito. In una America ancora impegnata in una guerra e mezzo (Afghanistan al 100 per 100, Iraq solo come assistenza militare), che non è riuscita a trovare la via per disegnare un percorso di pace in Medio Oriente e che ha un rapporto complicato - economico e politico - con la Cina, sul tappeto ci saranno subito la questione tasse e la questione riforma sanitaria. Il 31 dicembre prossimo scadono le agevolazioni fiscali decise nel 2001 e nel 2003 da George W. Bush e dunque torneranno le aliquote dell'era Clinton e spariranno tutte le deduzioni e facilitazioni per la tassazione delle rendite finanziarie. Obama ha detto che vuole continuare a ridurle al 98 per cento degli americani, ma non a quel due per cento che guadagna oltre 200 mila dollari (single) o 250 mila dollari (famiglie). Per fare questo ci vuole una legge: e la maggioranza non esiste. Dunque, ci sarà un compromesso generale, o la legge sparirà insieme ai suoi tagli e poi Obama avrà gioco facile ad accusare i repubblicani di essere contro la classe media nel mezzo di una ripresa economica anemica?

La battaglia sulla riforma sanitaria sarà altrettanto dura. I repubblicani hanno annunciato la volontà di cancellarla attraverso il cosiddetto repeal: ma non hanno i numeri al Senato e, in più Obama si è detto pronto a usare il potere di veto. A loro disposizione, però, hanno le proposition, ovvero quei disegni di legge che servono a finanziare le leggi che entrano in vigore in tempi successivi e che, come la riforma sanitaria, hanno bisogno di rifinanziamenti annuali. I repubblicani sono in grado di negarli creando un tale corto circuito nella attività di governo da portare allo shutdown, il blocco delle attività per mancanza di fondi, con il personale a casa e gli uffici chiusi. Usarono questo sistema contro Clinton nel 1994, ma poi pagarono un prezzo altissimo perché gli americani capirono che i repubblicani avevano pensato solo a s stessi e non all'interesse generale.

In questa nuova fase di polarizzazione politica fa sorridere l'esistenza della commissione bipartisan incaricata di mettere nero su bianco i suggerimenti per evitare l'aumento del budget. I deputati e senatori che ne fanno parte hanno appena raggiunto un accordo sui suggerimenti da inviare alla Casa Bianca e al Congresso. Non saranno ascoltati. Perché, appena archiviato il risultato elettorale di Mid Term, il treno della politica americana si è già messo in moto per la prossima destinazione, la grande gara tra democratici e repubblicani: le presidenziali del 2012.

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