Il grande leader sudafricano si è spento a 95 anni. Principale artefice della fine dell'apartheid, primo presidente nero del Sudafrica, è stato una delle figure chiave del Novecento nella lotta per i diritti civili e per la fine delle discriminazioni razziali

C'era un popolo che ha avuto bisogno di tempo per perderlo per sempre. E lui, Nelson Mandela, ancora una volta, lo ha ascoltato. È spirato senza fretta, dopo mesi di doloroso preavviso, consentendo al Sud Africa di abituarsi all'idea di un futuro senza il Padre della Patria e al mondo intero di convivere con la sensazione di avere perso uno dei suoi grandi senza tempo, un pezzo prezioso di storia.

Destinato a essere un capo fin da piccolo, seppure - nei piani del padre adottivo - soltanto della loro tribù, Mandela ha passato la vita a studiare come essere un buon leader: quando era un giovane studente squattrinato appena sbarcato a Johannesburg, più interessato alla politica che ai libri; quando si è fatto spazio all'interno del National African Congress, il partito dei neri sudafricani, contribuendo a fondare la ribelle Lega dei giovani; nei quasi trent'anni di prigionia a Robben Island, durante i quali non ha mai rinunciato al ruolo di grande mediatore; nel 1993 quando, dopo tre anni dall'uscita di prigione, ricevette il Nobel per la Pace; durante il quinquennio (1994 - 1999) da primo presidente nero del Sud Africa, eletto con una maggioranza bulgara; in quel mitico 1995, quando ci credette davvero nella forza del rugby, sport tradizionalmente bianco, di riuscire a riappacificare un Paese appena uscito dall'epoca dell'apartheid, e il Sud Africa difatti vinse la coppa e lui, in jersey verde e berretto, la consegnò al capitano di pelle bianca tra le ovazioni generali. Perfino negli ultimi anni non ha mai voluto smettere di imparare, così che sulla scrivania del suo ufficio, accanto al Corano e a qualche libro sparso, ha sempre campeggiato un manuale sulle qualità di un buon leader.

E leader immenso è stato, tanto che i sudafricani a lui, e a lui solo, riconoscono l'intero merito dell'uscita pacifica dall'apartheid e l'avvento della democrazia, nonostante il lavoro indefesso di migliaia di militanti, da Walter Sisulu a Oliver Tambo.

Di Mandela, o meglio, Madiba, il nome del suo clan con cui come veniva rispettosamente chiamato, è indimenticabile il sorriso perennemente stampato sul volto («le apparenze contano», disse una volta ad un amico) e quel consiglio che non si stancava mai di ripetere a chi chiedeva lumi, e che anche i politici italiani di una volta conoscevano bene: «Il segreto è guidare da dietro e lasciare credere agli altri di essere al comando».

Ma oltre al fiuto politico Mandela aveva cuore. E con il cuore è riuscito a non incappare nell'errore più grande: odiare il nemico. «Nessuno è nato odiando un'altra persona per il colore della sua pelle, per la sua storia o per la religione. Le persone imparano ad odiare. E se possono imparare ad odiare possono anche imparare ad amare perché amare è più facile per la natura umana del suo opposto», ha scritto nella sua autobiografia, "La lunga marcia verso la libertà".

Ha vinto il Nobel insieme al presidente bianco Frederik De Clerk per avere regalato al Sud Africa una transizione pacifica verso l'uguaglianza e le pari opportunità per tutti. Ma Mandela non è sempre stato un uomo di pace nel senso ghandiano del termine. Da giovane, all'interno dell'ANC, era lui l'uomo della linea dura: non battaglia pacifica a ogni costo, come sostenuto dai vecchi e dalla minoranza indiana del paese, ma anche lotta armata quando è necessario. Così nel 1952 fondò il braccio armato del partito, "Il dardo della nazione", poi bandito come organizzazione terroristica non solo dal governo bianco del Sudafrica ma anche dagli Stati Uniti. Per Mandela l'unica linea invalicabile era non perdere di vista l'obiettivo, come lui stesso spiegò nel 1964 durante il processo che lo spedì in carcere per tre decadi e per il quale rischiò la pena di morte, in quello che è forse rimasto per i posteri il suo discorso più celebre:

«Ho combattuto contro la dominazione bianca, e ho combattuto contro la dominazione nera. Ho perseguito l'ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone vivono in armonia, con uguali opportunità. È un ideale per il quale spero di potere vivere e di raggiungere. Ma, se necessario, è un ideale per il quale sono preparato a morire».

Riposa in pace, Madiba.

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