
Di fronte a migliaia di businessmen accorsi al recente Asian Financial Forum, John Rice, vicepresidente del colosso americano GE, da pragmatico yankee ha centrato il problema che tormenta i sette milioni di cittadini di Hong Kong: il benessere che si respira sulla piccola isola nel delta del fiume delle Perle, la sua civiltà plasmata dalla dominazione britannica senza snaturare la tradizione cinese, insomma il suo standard di vita così diverso dalla “mainland” a cui è stata restituita quindici anni fa, saranno rispettati dagli interessi che la strategia di crescita della Cina antepone a chiunque?
[[ge:rep-locali:espresso:285126936]]Detta in altri termini, man mano che la Cina si internazionalizza, che avanza nelle liberalizzazioni e nella modernizzazione, che fine farà questo avamposto sui mercati, questa navicella pilota che ha lanciato nel cuore del capitalismo? La soluzione è solo una, dicono gli hongkonghesi: se oggi lo slogan della convivenza come regione amministrativa speciale all’interno della Cina è “un paese due sistemi”, il passaggio a “one country one system” (che prima o poi avverrà) dovrà scegliere le regole di Hong Kong. Quelle che hanno assicurato una concentrazione di ricchezza da record su questi mille chilometri quadrati di terra che oggi aiutano la Repubblica popolare a prendere dimestichezza con il mercato, facendo da palestra alle trasformazioni.
Per convincere Pechino che è sempre il topolino ad avere la meglio sull’elefante, però, ce ne corre. «Dobbiamo diventare sempre più bravi a gestire il denaro, dobbiamo sviluppare un’industria dei servizi finanziari il più completa possibile, dalle commodity ai titoli del reddito fisso, altrimenti prima o poi ci spazzeranno via», ha ammesso il capo dell’Hong Kong Exchange, Charles Li Xiaojia.
Contro la mandarinizzazione alle porte (i cinesi hanno tentato di cambiare persino gli ideogrammi con cui si scrive il nome della città, sollevando feroci proteste) si erge la libera stampa cittadina, che ha recentemente manifestato dopo l’attentato subìto da un famoso giornalista investigativo, addebitato alla mafia cinese disturbata dai suoi articoli. Ma una delle interpretazioni dietro le quinte è che Pechino prepari il terreno per arrivare a controllare meglio i media in vista delle elezioni per l’autogoverno promesse per il 2017.
Una data ancora troppo lontana, però, per togliere a Hong Kong quell’aura di isola felice e prosperosa, con il record mondiale dei prezzi immobiliari (una casa in collina al Pollock Path è sui 120 mila dollari a metro quadrato) e che fa da porta d’ingresso ai consumi di 3,7 milioni di ricconi dell’Asia-Pacifico. Certo, il ceto medio si lamenta dell’invadenza dei cinesi della madrepatria, che quando possono si istallano in città per godere dei suoi servizi sanitari di livello superiore, delle sue scuole e università, magari spingendo i nativi in fondo alle liste d’attesa. E non mancano i nostalgici che osservano costernati l’oblio delle buone maniere e la contaminazione dei costumi con i modi rozzi dei cinesi immigrati, che si comportano da padroni.
Ma Hong Kong resta un posto unico. La disoccupazione è al 3,3 per cento, il Pil pro capite è sui 38 mila dollari, circa l’80 per cento delle famiglie possiede un pc collegato a Internet. Soprattutto, gode di un fisco tra i più miti del mondo, con i redditi personali tassati al 15 per cento, quelli aziendali al 16,5, e niente prelievo né sui dividendi né sui capital gain né sulla casa.
Per ora l’abbraccio cinese non ha strangolato questa economia, anzi l’ha lasciata respirare. Ma Hong Kong vede con apprensione la crescita in potenza dei vicini porti cinesi come Nansha, nel Guangzhou, che le sta rubando quote traffico nel delta. E ogni volta che da Pechino si lanciano nuove “free zone”, la città si interroga con quanta concorrenza dovrà avere a che fare. È accaduto da poco, con l’annuncio che Shanghai sarà una nuova zona di libero scambio; sarebbe un antagonista pericoloso, senonché lì le tasse restano ancora al 25 per cento, ben lontane dai livelli impareggiabili dell’isola.
Quanto al presidio dei ricchi flussi commerciali del delta, Hong Kong ha reagito lanciando la costruzione di un imponente sistema di ponti e tunnel per 30 chilometri di lunghezza, che entro il 2016 faranno dell’estuario un reticolo di comunicazioni su ruote tra terra ferma e isole.
Ma la vera assicurazione sul futuro di Hong Kong si chiama renminbi. Oggi è qui che la valuta cinese si sta facendo le ossa come mezzo di pagamento internazionale, prima di spiccare il volo verso la piena convertibilità che, hanno previsto gli esperti dell’Asian Financial Forum, non potrà accadere prima di cinque anni, più probabilmente tra dieci.
Hong Kong conserva nelle sue casse una quantità importante di valuta cinese (un trilione di yuan), e serve di fatto come centro offshore per i cinesi, perché da lì si gestiscono scambi per oltre tre trilioni di yuan ogni anno, in gran parte dovuti al fatto che chi vuole fare affari con il gigante deve utilizzare il topolino: a Hong Kong risiedono 3.800 aziende straniere, incluse quelle cinesi, che solo da lì possono curare i loro contratti internazionali in maniera efficiente. E da lì passa il 40 per cento degli investimenti stranieri in Cina.
Ma tutto ciò gira essenzialmente intorno al trading, cosicché è il commercio il carburante dell’isola. Non c’è ancora, insomma, un vero mercato dei capitali denominato in renminbi, anche se passi in questa direzione si stanno facendo: molte imprese straniere, da McDonald’s a Unilever, hanno emesso bond in renminbi a Hong Kong, e solo ora la tedesca Daimler ha rotto il tabù di lanciare il primo bond privato oltre il confine, per il mercato cinese e in valuta cinese. Andato peraltro a ruba, poiché la cedola al 5,2 per cento è molto più appetibile del tasso bancario al 3 per cento per i depositi a un anno ma allo 0,3 per cento sui conti correnti. E sarà un buon test di assaggio anche il prossimo bond annunciato questa volta da una istituzione cinese di stampo statale, la International Finance Corp, che sarà emesso sulla piazza di Londra, ben contenta di scommettere sul futuro del renminbi.
Ma siamo ancora ai vagiti della liberalizzazione. Per giocare davvero al gioco della finanza globale ci vuole altro, che Pechino ancora non ha. La palestra di questo gioco è appunto Hong Kong, che parla al mondo della finanza internazionale come la Cina non sa ancora parlare. Ha un solido sistema legale basato sulla Common law britannica (e quindi protezione sui contratti e sulla proprietà intellettuale), una Borsa matura, strutture di controllo e di “check and balance” e una valuta, il dollaro di Hong Kong, legata a quello americano. E tutto ciò lo difende con i denti.
Ha fatto sensazione, per esempio, il coraggio con cui i dirigenti della Borsa hanno sbattuto la porta in faccia a una società come Alibaba, la più grande società di e-commerce cinese, che voleva quotarsi. Il motivo per rinunciare a ospitare nel listino un titolo che raccoglierà dal mercato almeno 15 miliardi di dollari e avrebbe arricchito del 2-3 percento il bilancio del gestore di Borsa? È presto detto: Jack Ma, il tycoon che controlla Alibaba, voleva che per lui fosse forzata la regola di governance stabilita per le società ospitate nel listino, il principio “un’azione, un voto”. Voleva, in sintesi, mantenere il controllo del board della società anche dopo l’offerta pubblica attraverso una classe di azioni con diritti speciali. Charles Li, il capo dell’Exchange, ha detto no. E ha spiegato la decisione nel suo blog con un apologo in cui si affrontavano sul tema Tradizione e Futuro. Ma dopo la decisione di Jack Ma di andare a quotarsi a New York, Li ha anche ammesso che l’Hong Kong Exchange deve affrontare laicamente le sfide della modernità e ha aperto un cantiere interno per rivedere qualche regola. I clienti cinesi non si possono tenere tutti fuori della porta.