Lo Stato islamico rende disponibile sul web il nuovo numero della rivista Dabiq. Affidando all'ostaggio John Cantlie, il giornalista britannico catturato nel 2012, un messaggio provocatorio: «Se le nazioni occidentali vogliono una tregua, ci pensino tre volte prima di buttare all'aria questa opportunità»

Il tempismo è da marketing pubblicitario. La confezione curata nel dettaglio. I contenuti violenti. Giovedì scorso, a poche ore dall'operazione di polizia che a Saint-Denis ha portato all'uccisione del presunto coordinatore degli attacchi di Parigi, lo Stato islamico ha reso disponibile sul web l'ultimo numero della rivista Dabiq, il dodicesimo.

Redatta in inglese, patinata come un magazine musicale o di moda, la rivista si rivolge al pubblico internazionale, ai simpatizzanti, agli aspiranti jihadisti. Ma anche ai “nemici vicini”, i regimi arabi corrotti e apostati, e a quelli “lontani”, i crociati occidentali. Lo Stato islamico lancia minacce, promette ulteriore violenza. E ai nemici dell'Occidente manda un segnale politico importante: il negoziato non è un tabù.
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Il messaggio è affidato all'ostaggio John Cantlie, un giornalista britannico catturato nel novembre 2012 insieme al collega John Foley. Il reporter americano è stato sgozzato il 19 agosto 2014. Gantlie è costretto a fare propaganda. Già autore di video diffusi sul web, ha firmato due articoli sulla rivista Dabiq. Nel primo, sul numero 8, contesta la scelta dei media occidentali di descrivere lo Stato islamico come «un'organizzazione», anziché come «entità reale e funzionante». La questione non è secondaria, ribadisce nell’ultimo numero di Dabiq. «Combattere i terroristi è una cosa, combattere un paese, anche se quel paese si affida alle tattiche terroristiche, è un'altra». Vi riferite al «cosiddetto Stato islamico» per giustificare la guerra. Una guerra inutile.

«Che i tentativi di “contenere” lo Stato islamico siano falliti è notizia vecchia. Ma che dire della parolina segreta, negoziato?», chiede Cantlie. I mujahedin «non accetteranno mai una collaborazione con l'Occidente», sia chiaro, ma «se le nazioni occidentali vogliono una tregua, dovrebbero pensarci tre volte prima di buttare all'aria questa opportunità». È la prima apertura diplomatica di Abu Bakr al-Baghdadi. Il più importante messaggio politico lanciato all'Occidente dalla fondazione del Califfato: il negoziato non è un tabù.

Ma i tempi sono prematuri. Per ora, bisogna mostrasi feroci. La copertina è dedicata a Parigi. La foto principale raffigura pompieri e infermieri intorno a una barella. Più in basso, alcuni corpi coperti con un telo bianco, su cui campeggia la scritta «Just Terror».

Gli attacchi alla capitale francese che nella notte di venerdì 13 novembre hanno causato la morte di 129 persone e il ferimento di altre trecento vengono rivendicati per quel che sono: atti di terrore. Un'affermazione di violenza cieca, brutale, come quella auspicata da Abu Bakr Naji ne La gestione della barbarie, un manuale di guerriglia e un manifesto per la nascita del Califfato scritto nel 2004 e con ampia circolazione tra i militanti dello Stato islamico. Per Abu Bakr Naji (forse il nome di battaglia del jihadista egiziano Mohammad Hasan al-Hakim), «il jihad non è che violenza, crudeltà, terrorismo, spaventare e massacrare gli altri». Non bisogna temere di mostrarne gli effetti. «La guerra va così, e le masse devono abituarsi». Il sangue va esibito. E rivendicato.

«I crociati dell'Est e dell'Ovest pensavano di essere al sicuro nei loro jet, mentre bombardavano i musulmani del Califfato», ma grazie ad Allah «la punizione è arrivata dove non se l'aspettavano», si legge su Dabiq. È la rivendicazione dell'attacco dello scorso mese contro il volo A321 Metrojet che da Sharm el- Sheikh, nel Sinai egiziano, puntava a San Pietroburgo, in Russia: 224 persone morte per una lattina di Schweppes riempita di esplosivo. La foto della bomba artigianale, elementare, manda a dire: possiamo colpirvi ovunque.

Anche nel cuore dell'Europa, a Parigi. Lo Stato islamico «ha mandato i suoi coraggiosi cavalieri a dichiarare guerra nelle terre dei perfidi crociati», e Parigi è «finita in ginocchio». È la seconda rivendicazione degli attacchi, dopo quella del giorno successivo alla strage. Non dimostra che la regia sia della casa madre dello Stato islamico, a Raqqa. Anche questa volta non vengano forniti dettagli sugli autori, sugli «8 cavalieri». A dispetto delle fonti dell'intelligence raccolte dalla Reuters e dal New York Times. secondo le quali i terroristi sarebbero stati in comunicazione diretta con la casa madre a Raqqa, l'azione sembra soltanto favorita o ispirata dalla leadership.

Russia e Francia pagano il conto di scelte sbagliate. Il 30 settembre 2015 «la Russia ha deciso di partecipare direttamente con le proprie forze aeree alla guerra. È stata un'incauta decisione di arroganza da parte della Russia, come se non fossero sufficienti le sue guerre contro i musulmani del Caucaso». Da qui l'attacco al Metrojet: «219 russi e 5 altri crociati» il bilancio, celebrato, delle vittime. La Francia è stata colpita per la scelta militarista: «il 19 settembre la Francia ha cominciato in modo arrogante a condurre raid aerei contro il Califfato». Solo la sua hubris le ha fatto credere «che la distanza geografica dalle terre del Califfato l'avrebbero protetta dalla giustizia dei mujahedin».

L'enfasi sui successi militari in Europa e nelle varie wilayat (province) in cui si è espanso lo Stato islamico serve a mostrare forza. Il Califfato è un marchio di successo. La rivista Dabiq compiace i jihadisti. Mobilita i simpatizzanti. Rassicura i finanziatori occulti: siamo un investimento sicuro. Rispetto a Inspire, il vecchio magazine lanciato da al-Qaeda nella penisola arabica con lo scopo di reclutare «lupi solitari» per compiere attacchi terroristici in Occidente, Dabiq - lanciata nell'estate del 2014 e distribuita attraverso il canale di propaganda al-?ay?t - è figlia di disegno diverso, più articolato. I potenziali militanti vengono attratti con «una complessiva visione religiosa, militare e politica». Fondata su un doppio registro: vocazione millenarista e rivendicazione statuale.

Lo Stato islamico fornisce un universo ideologico al quale aderire, dalla matrice apocalittica: i jihadisti sono un'avanguardia di uomini pronti a restaurare la gloria dell'Islam sulle rovine del mondo attuale. Il nome della rivista non è casuale. Cittadina della Siria settentrionale a dieci chilometri dal confine turco, Dabiq è anche un luogo mitologico dove secondo la profezia dello Stato islamico avverrà la battaglia finale fra gli eserciti dei crociati e quello di Allah. «La scintilla è stata accesa qui in Iraq, e il calore continuerà a crescere - con il permesso di Allah - fino a quando non brucerà gli eserciti dei crociati nel Dabiq», recita la citazione che apre l'ultimo numero. Una frase di Abu Musab al-Zarqawi, lo spietato jihadista giordano fondatore di al-Qaeda in Iraq, vero padre putativo dello Stato islamico e della sua strategia ideologico-militare.

I toni apocalittici si accompagnano alla necessità di mostrarsi come un attore politico e istituzionale reale. «Una realtà che ognuno può vedere», si legge nel secondo numero della rivista. I jihadisti insistono da tempo: non siamo più una semplice organizzazione, un movimento, un gruppo di militanti, ma uno Stato vero e proprio.

Nell'ultimo numero di Dabiq si cita un discorso di Abu Omar al-Baghdadi (da non confondere con l'attuale leader del gruppo, Abu Bakr al-Baghdadi), la «guida dei fedeli» dello «Stato islamico in Iraq», l'embrione del futuro Califfato. Già nel 2006 Abu Omar al-Baghdadi riconosceva l'importanza del farsi istituzione. Lo Stato islamico è nato per restare, diceva, «perché edificato sui corpi dei martiri, irrigato con il loro sangue...». Nove anni dopo, sulle colonne del principale strumento di propaganda jihadista, ci si chiede: «I crociati, quando realizzeranno che il Califfato è qui per restarci?».