Guerre, immigrati, Africa. E il seggio all’Onu. Parla il ministro degli Esteri. Che dice: se finiscono i conflitti per noi si apre un grande business

Paolo Gentiloni
L’apocalisse dei migranti e la stabilizzazione della Libia. Gli egoismi in Europa e la guerra infinita in Siria. La lotta al terrorismo e il ritorno dell’Italia in Africa. Fino alla battaglia elettorale per entrare nel 2017, per un biennio, nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri, racconta e spiega in questo colloquio con “l’Espresso” le sfide che l’Italia ha davanti e come le vuole affrontare il governo di cui fa parte.

Ministro Gentiloni, nel Mediterraneo e sulle sue coste sta avvenendo di tutto: la migrazione di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini che fuggono da guerre e povertà; due conflitti - in Libia e in Siria - nei quali intervengono più o meno apertamente altre nazioni; una minaccia terroristica globale che si è già manifestata sul suolo europeo. E l’Italia è al centro del Mediterraneo. Qual è il ruolo del nostro Paese, quali le linee guida del governo in tema di sicurezza nazionale e difesa dei nostri interessi?
«Innanzitutto, dobbiamo agire perché queste crisi siano riconosciute sia dall’Unione Europea che dalla Nato e vengano messe al primo posto dell’agenda per rimediare a una sottovalutazione dei mesi scorsi. Poi, dobbiamo essere consapevoli che un Paese amico e alleato come gli Stati Uniti ha chiuso la stagione interventista e noi dobbiamo farci carico del problema sicurezza insieme ad altri Paesi dell’area oltre che agli Usa. Infine, dobbiamo promuovere attivamente la nostra partecipazione alla coalizione anti Daesh (Stato Islamico) o agli eventuali interventi per aiutare la stabilizzazione in Libia. Tutto questo nella consapevolezza che un Mediterraneo libero dalle crisi rappresenta per l’Italia una straordinaria opportunità economica, commerciale e di sviluppo. L’Italia è al quarto posto, dopo Stati Uniti, Germania e Cina, come partner commerciale dei Paesi aggregati del Mediterraneo e talvolta davanti alle crisi noi tendiamo a dimenticare questa straordinaria opportunità che abbiamo per conseguire i nostri obiettivi».

Lo sforzo dell’Italia sulla questione migranti è sotto gli occhi di tutti, tutti i giorni. Ma non è possibile tappare la falla di una diga con un dito. Qual è la via per far rientrare gli egoismi che ancora oggi impediscono che nell’Unione Europea si parli una sola lingua su questo problema?
«Bisogna convincere quei Paesi che si rifiutano di accogliere una quota di migranti che non è questa la soluzione della crisi. Il fenomeno è permanente e dunque va gestito e regolato. Il continente africano arriverà a una popolazione di due miliardi e mezzo di persone nel 2050 e, lo si voglia o meno, nel futuro i nostri equilibri demografici come quelli del mercato del lavoro e previdenziali dipenderanno direttamente dai flussi migratori. Bisogna anzitutto rimuovere gli egoismi di buona parte dei Paesi che facevano parte del blocco comunista e poi confrontarci con il Regno Unito che ha fatto della questione migranti il centro del dibattito politico interno per ridiscutere i rapporti con l’Unione Europea».

Quali atti concreti è pronta a fare l’Italia perché gli egoismi non prendano il sopravvento?
«In questi mesi ci siamo mossi per far capire che questa non è una emergenza che riguarda i Paesi dove sbarcano i migranti, Italia e Grecia, ma di tutta l’Europa. Non è stato facile e solo l’acuirsi della crisi con i morti non più solo in mare, ma nel cuore del continente ha fatto sì che si arrivasse a capire che il problema è di tutti. Purtroppo, le risposte ancora oggi vanno in direzioni molto diverse, dalle barriere di filo spinato al divieto di ingresso per chi non può dimostrare di avere un lavoro. Noi dobbiamo continuare a premere perché si arrivi a una risposta comune che si fondi sui pilastri sui quali è stata costruita l’Europa, a cominciare dalla libertà di circolazione delle persone. Chi dice che la soluzione è ridiscutere Schengen e rafforzare i confini nazionali con muri e filo spinato dimentica che l’Europa è nata per abbattere tutti i muri e ne mette in discussione l’esistenza futura».

La parola d’ordine adesso è modificare il trattato di Dublino che regola i flussi migratori. Non si fa in un giorno e i tempi della Ue sono sempre lunghi. In attesa di nuove regole che si fa?
«Intanto, evitiamo che muoiano in mare. Poi, li accogliamo e cerchiamo di gestire i flussi insieme a tutti quelli che sono d’accordo con questa impostazione. Infine, cerchiamo di introdurre il principio secondo cui chi ha diritto all’asilo non entra in un singolo Paese ma in Europa. Questa novità rivoluzionaria andrebbe accompagnato da una serie di paletti che vanno dalla difesa dei confini esterni Ue, alla distribuzione degli arrivi per evitare squilibri nella ripartizione dei migranti fino a politiche comuni per i rimpatri forzati».

La Libia non ha ancora trovato una strada per il dopo Gheddafi. Stiamo faticosamente provando a far sedere fazioni e tribù allo stesso tavolo e far sottoscrivere un accordo. Nel caso ciò non avvenisse, l’Italia ha un piano B o dobbiamo rassegnarci ad avere a poche decine di chilometri l’instabilità perenne?
«La stabilizzazione della Libia è al primo posto nella lista degli interessi del nostro Paese per ragioni economiche, commerciali, migratorie e di sicurezza. Questo obiettivo si raggiunge solo ed esclusivamente partendo da un accordo tra i libici al quale seguiranno le iniziative della comunità internazionale per aiutare il processo di stabilizzazione. Non esiste un piano B, se i libici non troveranno un accordo tra di loro, il ritorno alla normalità in quel Paese non si ottiene con avventure militari. Se, invece, mettiamo a fuoco la questione del pericolo terroristico, non mancano le possibilità di contrastare il fenomeno che in Libia appare ancora circoscritto e si potrebbe estendere il raggio di azione della coalizione anti Daesh anche alla Libia».

La guerra civile in Siria, cominciata nel 2011, è la fotografia dell’incapacità della comunità internazionale di fermare un conflitto e trovare soluzione ai problemi che l’hanno provocato. Dobbiamo rassegnarci a una guerra senza fine?
«La guerra civile mostra i limiti dell’azione della comunità internazionale e fino a che punto possa arrivare l’efferatezza del confronto armato. L’Italia ha cercato di lanciare fin dall’inizio il messaggio che il solo modo per arrestare il conflitto era avviare una transizione che portasse all’uscita di scena del presidente Bashar al Assad. Questo invito non è stato raccolto, hanno dominato la scena le due visioni opposte che dicevano mandiamo via Assad con le armi o difendiamolo fino all’ultimo uomo. Adesso ho l’impressione che questa visione trovi di nuovo spazio anche grazie all’accordo sul nucleare iraniano».

Ha ricevuto segni concreti nel corso del recente viaggio in Iran, o la sua è solo ancora una ipotesi che quell’accordo possa innescare un processo di stabilizzazione nell’area?
«È ancora una ipotesi ma io sono tra coloro che credono seriamente che possa rivelarsi esatta. Non ci possono essere cambiamenti immediati, il percorso di attuazione dell’accordo è lungo: il Congresso degli Stati Uniti deve pronunciarsi sull’accordo a metà settembre, all’interno dell’Iran la novità deve ancora essere digerita completamente. Ma il tempo ci riserverà sorprese positive non solo nell’ambito dei rapporti economici ma negli scenari di sicurezza dei Paesi dell’area».

Il presidente del consiglio Matteo Renzi si è innamorato dell’Africa. È andato a luglio ad Addis Abeba alla conferenza sul finanziamento allo sviluppo. Lì ha detto che «dopo anni di inerzia l’Italia c’è di nuovo», ha aggiunto che non vuole essere più all’ultimo posto dei Paesi del G7 in termini di finanziamenti alla cooperazione. Solo pochi giorni fa ha ribadito in una intervista al “Corriere della Sera” di voler «avere un ruolo maggiore in Africa e in Medio Oriente e investire di più sulla cooperazione». Che cosa vuol dire tutto ciò in termini di presenza internazionale dell’Italia e di azioni concrete?
«Dal punto di vista generale c’è la presa di coscienza che per i suoi rapporti politici, economici e commerciali, l’Italia è molto più importante di quanto noi stessi siamo portati a credere. In termini pratici significa che siamo consapevoli di avere rapporti molto importanti con le nazioni di quel continente, dall’Egitto all’Etiopia, dai Paesi della costa nord a quelli in cui abbiamo rilevanti investimenti nel campo energetico. È logica conseguenza che a cominciare dalla prossima legge di stabilità, dobbiamo recuperare, sia pure gradualmente, un ruolo importante nel campo della cooperazione. Che non è più esclusivamente solidarietà e assistenza ma serve anche a ridurre le cause dei fenomeni migratori e a creare le basi di rapporti economici strategici per il futuro dell’Italia».

Dove prendiamo i soldi necessari visto che negli ultimi 20 anni, ancora prima della crisi economica, abbiamo fatto promesse e non le abbiamo mantenute? Qual è il livello di spesa sul prodotto interno lordo visto che il sogno di tutti i Paese avanzati è mettere a disposizione della cooperazione allo sviluppo lo 0,7 del Pil?
«Sarà una cifra che non ci farà più stare tra gli ultimi del G7 e che gradualmente si avvicinerà allo 0,3 del Pil».

Con molta discrezione l’Italia è in piena campagna elettorale per ottenere nel 2017 uno dei seggi non permanenti e a rotazione nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nel caso riuscissimo a trovare i voti necessari, che ruolo intendiamo avere?
«Abbiamo due messaggi da portare in Consiglio di sicurezza. Il primo: possiamo offrire elementi decisivi per migliorare la qualità delle missioni di pace decise dalle Nazioni Unite vista l’esperienza che abbiamo avuto in vari teatri, dal Kosovo al Libano. Il secondo: da decenni l’Italia è un campione del dialogo, capace di farlo in tutti i teatri di crisi, dall’Ucraina alla Libia e senza mai venire meno neanche per un momento al nostro impegno in istituzioni come l’Unione Europea o l’Alleanza Atlantica. Questo ruolo costruttivo e questa capacità di parlare con tutti può essere un elemento prezioso per il Consiglio di Sicurezza».