
Il vero confine, quello legale, è al terminal dei traghetti. Qui, passeggeri cinesi e russi si danno il cambio per raggiungere le vicine sponde contrapposte. Il passaggio è libero e non c’è bisogno di visto.
I cinesi che si incontrano sul traghetto da Heihe a Blagovešcensk sono di tre tipi: commercianti, turisti e imprenditori. I primi portano ogni bendidio: scarpe, valige, gadget elettronici, chincaglierie varie, canne da pesca: tutto a prezzi bassi, da vendere ai russi. I secondi vogliono solo provare l’emozione di una giornata all’estero: una visita alla chiesa ortodossa dell’Annunciazione, una foto di gruppo in piazza Lenin, una gita al museo di storia naturale, poi la sera tutti a casa. Infine ci sono gli imprenditori, appunto: che invece vanno in Russia per aprire ristoranti e avviare imprese commerciali o edili.
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Lee Hua, per esempio, è una signora di cinquant’anni, indossa un abito tradizionale cinese decorato con draghi rossi, guida una Toyota Patriot e da quando abita in Russia si fa chiamare Larissa: «È più facile integrarsi scegliendo un nome locale. Non sono l’unica ad aver fatto questa scelta: qui è pieno di Ivan e Sergei che in realtà sono cinesi», ride. Larissa è una pioniera: è arrivata a Blagovešcensk nel 1993, iniziando a lavorare come interprete. Ma ha fatto strada: ha inaugurato il suo primo ristorante, poi due, tre. Oggi è titolare di una delle maggiori imprese edili della città: «Ho costruito una quindicina di edifici, due scuole e un asilo», racconta. Glissa invece su come ha fatto: cioè chiamando in Russia manodopera cinese a bassissimo costo.
I cinesi infatti vivono in dormitori negli stessi edifici in via di costruzione, lavorano sette giorni la settimana, bevono raramente (al contrario dei locali) e obbediscono molto. Diventata ricca, Larissa ha sposato un russo. Vivono in un grande appartamento sulla sponda del fiume. Dalla finestra dell’ampio soggiorno si vede, quindi, la Cina: sembra quasi di poterla toccare. Ma Lee Hua-Larissa non ha rimpianti: gli affari vanno bene. E ora sta costruendo un centro commerciale che chiamerà “La piccola Venezia”.
Una volta invece chi arrivava in questo lembo estremo di Russia non lo faceva per scelta, ma per destino o costrizione. Prigionieri, fuggiaschi, avventurieri hanno attraversato la Siberia per non tornare più indietro. Tra questi c’era Vania Makarov, un cosacco della guardia bianca, difensore dei confini dell’impero russo. Dopo la rivoluzione bolscevica, venne condannato ai lavori forzati nella Kolyma, luogo dannato descritto nei racconti di Varlan Shalamov. Due generazioni dopo, conosciamo suo nipote, Andrei: vive con la moglie a Maghilovka, un piccolo paese alla confluenza tra i fiumi Ussuri e Khor. La casa è di legno, vecchia ma spaziosa, e come per molte famiglie da queste parti c’è un grande orto di pomodori, patate, cavoli, zucche.
Come tradizione cosacca vuole, hanno una sconfinata passione per i cavalli e un’ossessione per la difesa del territorio. La mattina Andrei monta un puledro, indossa la divisa del nonno risalente alla prima guerra mondiale, imbraccia la spada, e percorre il confine per impedire l’ingresso a eventuali immigrati illegali cinesi. Confessa di non averne sorpreso nessuno, ma non si sa mai.
È quasi grottesca, la pattuglia patriottica di Andrei. Oggi i cinesi arrivano in altro modo, portando il loro capitalismo fatto di commercio e imprenditoria senza regole.
Leonid Bliakher è un filosofo docente all’ università di Khabarovsk e un’autorità sulla storia dell’estremo est russo. Spiega: «Quando i primi cosacchi arrivarono qui trovarono una terra ricca e selvatica, dove tutti facevano affari con tutti. Con la rivoluzione bolscevica i cosacchi sono stati sostituiti dai giovani comunisti, i Komsomol, e dal nulla sono nate città per sfruttare le risorse naturali, con la manovalanza di prigionieri e deportati nei campi di lavoro. Così è stato per decenni. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica è iniziato un periodo d’anarchia: Mosca si è dimenticata delle province lontane, l’economia è collassata, le città si sono svuotate, le fabbriche hanno chiuso. Ora stanno arrivando i cinesi».
Del tempo sovietico però restano ancora diverse tracce. Come la città di Komsomolsk sull’Amur, che si raggiunge attraverso centinaia di chilometri nelle foreste incontaminate. Fu fondata nel 1932 dai giovani del partito comunista e si vede: i suoi viali sono immensi e i palazzi in stile classico-socialista sono stati pianificati per ospitare milioni di persone. Oggi gli abitanti sono appena duecentomila. Di questi, molti sono impiegati nell’unico grande complesso industriale della regione: la Sukhoi, produttrice dei jet militari SU, gioielli della flotta aeronautica russa.
Il 16 agosto si è celebrato l’anniversario della nascita dell’azienda: mamme, nonne, coppie, bambini e piloti in uniforme si sono riuniti all’aerodromo per godersi lo spettacolo acrobatico organizzato per l’occasione. Durante l’alzabandiera, dagli altoparlanti è partito il “Canto Patriottico”. Tutti si sono alzati. Per un attimo, la lontanissima “madre patria” Russia è parsa incredibilmente più vicina.
Ma è stato solo un sogno di un pomeriggio nostalgico. Mosca in realtà è a seimila chilometri di distanza e sette ore di fuso. I cinesi sono molto più vicini. E di notte, a Blagovešcensk, arrivano i suoni e le luci di Heihe, rampante Disneyland a mandorla che un po’ saluta e un po’ irride i grigi dirimpettai russi.