Dalle divisioni attuali si esce solo con un salto di qualità: un vero governo Ue, esercito comune, sistemi fiscali omogenei
C'è la crisi dei rifugiati e ci sono problemi di più vecchia data, enormi. Una febbre terribile ha ora colpito un organismo già indebolito, e le condizioni del malato - l’Unione europea - sono a tal punto allarmanti che i pronostici sul suo destino sono cupi.
«L’Unione sta male, molto male», si sente ripetere ormai ovunque, e a dirlo non sono i suoi antagonisti, coloro che la sua scomparsa allieterebbe. Sono, al contrario, i suoi sostenitori più fervidi, europei convinti come Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione, Manuel Valls, premier francese che parla di un pericolo di «dislocazione», Emmanuel Macron, suo ministro dell’Economia che mette in guardia da un «processo di smantellamento» che nel volgere di poco tempo potrebbe diventare «ineluttabile», o ancora Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, dell’assemblea dei 28 capi di Stato e di governo.
Proprio quest’ultimo una decina di giorni fa non ha esitato a dire che all’Unione restano soltanto «due mesi» di tempo per gestire il flusso dei rifugiati, pena la fine, così ha affermato, dell’area Schengen, della libertà di circolazione tra i ventidue Stati membri dei beni e degli individui. La fine, insomma, di questa esperienza fondamentale dell’unità europea, la perdita della quale le darebbe una sorta di colpo di grazia. Non è più un timore. È una forma di panico, non simulato, perché anche se l’Unione non si dissolverà dall’oggi al domani, se nessuno se ne accorgerà e ne dichiarerà la fine, essa potrà benissimo ridursi a una lapide sulla facciata.
Come tante altre organizzazioni internazionali, l’Unione potrà entrare in letargo mentre i suoi Stati rinunceranno, nel caso specifico, alle loro decisioni comuni; mentre ogni sua componente si rallegrerà di quel che ha, senza preoccuparsi delle altre, e ben presto, si scaglierà contro di esse; mentre lo slancio al ritmo del famoso slogan “sempre più unità” perderà mordente e condurrà le politiche comunitarie e la moneta unica nel cimitero delle illusioni perdute. «Finalmente!», esulterebbero a quel punto gli eurofobi. In verità, però, sarebbe la catastrofe. Una tragedia spaventosa. Quali ne saranno le conseguenze?
Perderemmo la possibilità di unire tutte le nostre forze per dotarci di una Difesa comune. In Europa resterebbero soltanto due eserciti veri e propri, quello britannico (che dai tempi dell’avventura in Iraq brilla per la sua vistosa latitanza) e quello francese, che tra Sahel, controllo antiterrorismo e attacchi contro Daesh è allo stremo delle sue capacità operative. Sceglieremmo di restare privi di Difesa nel momento stesso in cui gli Stati Uniti reindirizzerebbero le loro forze verso il Pacifico e nel momento in cui le minacce affiorano ovunque, non soltanto a Sud, ma anche a Est.
Ci priveremmo della possibilità di investire insieme nei settori industrializzati del futuro e della ricerca, nelle grandi università in grado di contendere gli insegnanti e gli studenti migliori alle università americane più prestigiose. Rinunceremmo, in altri termini, a dare il via alle prossime rivoluzioni industriali. Di conseguenza, rinunceremmo a fare nuove conquiste.
Condanneremmo ciascuno dei nostri paesi a riallacciare rapporti con le proprie zone di influenza, con i propri alleati tradizionali, a fare in primis i propri interessi a discapito di quelli comuni in un mondo sempre più inquietante.
Al contempo, lasceremmo appassire e morire un modello senza pari di tutele e di solidarietà sociale che nessuno dei nostri paesi, da solo, sarebbe in grado di preservare in un’economia globalizzata. Perderemmo la superiorità morale che sostiene e legittima la nostra reputazione internazionale e ripartiremmo, in definitiva, dall’Europa di una volta, quella delle svalutazioni competitive e delle alleanze di ripiego, senza pensare neanche per un momento che tutto ciò potrebbe presto condurci a nuovi conflitti continentali, a quelle guerre del passato che tanto gli iugoslavi alla fine degli anni Ottanta quanto noi oggi non immaginiamo più possibili.
Il rischio è questo. Ed è enorme. Eppure, no, i giochi non sono ancora fatti. Non è già tempo di disperare. La difficoltà nasce dal fatto che non dobbiamo far calare soltanto la febbre. Anche se arrivassimo a far fronte insieme e in modo razionale alla crisi dei rifugiati; anche se smettessimo di darci da soli la zappa sui piedi, sarebbe necessario rimettere l’Unione sulla rotta giusta. Questo è il compito immane.
È immensamente difficile perché, per riuscirci, sarebbe indispensabile premere sull’acceleratore dell’integrazione nel momento stesso in cui le pubbliche opinioni europee non vogliono sentirne parlare e ogni nuovo trattato sarebbe respinto: arrivati a questo punto gli europei diffidano dell’Europa.
Sarebbe necessario uniformare e armonizzare le nostre politiche fiscali e sociali, perché non possiamo più avere una moneta unica e ventotto politiche economiche diverse. Sarebbe necessario investire un po’ di intelligenza collettiva nello sforzo di riduzione dei deficit affinché l’Unione non sia più assimilata a un’austerità controproducente e l’Italia, perfino l’Italia, perfino Matteo Renzi, smetta di attaccare con accanimento l’Unione. Sarebbe necessario costituire una polizia europea, un servizio d’intelligence europeo, un corpo di guardia alle frontiere europee, perché non possiamo avere uno spazio interno senza frontiere - e dunque un territorio federale - e non dotarci di una difesa comune e di frontiere esterne degne di tale nome. Sarebbe necessario, più di ogni altra cosa, eleggere un esecutivo comune, responsabile nei confronti dell’elettorato paneuropeo, perché non possiamo neanche avere così tante politiche comuni e cittadini europei che non vedono e capiscono chi le vara di preciso e perché.
A ventotto, a diciannove, a dodici o perfino a sei, sarebbe necessario forgiare le istituzioni di una federazione di Stati nazione. Peccato che nessuno, nei fatti, abbia davvero voglia di uniformare i nostri apparati fiscali e le nostre salvaguardie sociali, delegare i poteri delle polizie nazionali a una polizia federale, una sorta di Fbi europea. E nessuno dei governi europei - neppure uno - accetta che possa costituirsi un esecutivo paneuropeo al di sopra di lui.
In altri termini, ci siamo spinti troppo lontano per non andare ancora oltre, ma né i governi né i cittadini intendono più fare nuovi passi avanti. Tutto sommato, non è meglio un uovo oggi che una gallina domani?
E dunque, siamo forse al fiasco totale? Ineluttabile e programmato? Soltanto a immaginare una fine del genere, la accelereremmo. Non ne abbiamo il diritto, ma non potremo evitarlo che a due condizioni.
La prima è che i più lucidi dei nostri governi, dei nostri giornali, dei nostri partiti e dei nostri opinion-maker si decidano a dire chiaramente a tutti i governi e ai cittadini europei che tirar su muri alle frontiere porterà inevitabilmente soltanto a un caos maggiore.
Non è certo questo che impedirà ai disgraziati di scappare da una morte certa assumendosi il rischio di una morte possibile. Più si abbasseranno le sbarre alle frontiere e più la Grecia e l’Italia saranno abbandonate a loro stesse, e più l’Europa ne uscirà fragile, tormentata dal risentimento tra le varie capitali, umiliata, ridicolizzata dall’incapacità di un’Unione di oltre 500 milioni di persone ad accogliere un milione di rifugiati. Fossero anche due... basta!
È arrivato il momento di parlare chiaro. Di condividere gli obblighi dell’accoglienza. E di vedere, in seguito, che cosa fare di quegli Stati che decideranno di non proseguire in tal senso. Perché sì, ce ne saranno. Se non ci riusciremo, poveri noi. Si arriverà allo “smantellamento”, alla “dislocazione”.
La seconda condizione fondamentale per scongiurare tutto ciò è accelerare la nostra integrazione, ma con trattati vincolanti, senza modifiche istituzionali, e in ambiti che non siano oppugnabili.
La stragrande maggioranza degli europei - euroscettici compresi - sarebbe favorevole a una Difesa comune. E allora creiamola! Basta tergiversare! Creiamola subito e molte altre cose faranno seguito alla sua creazione, perché a quel punto diventeranno palesemente indispensabili e logiche.
Nessuno, al contrario, si opporrebbe in Europa all’avvio di programmi di ricerca comuni, nello specifico le ricerche sulle terapie del futuro. E allora avviamoli! Tutti otterranno vantaggi dalla realizzazione, su modello dell’Airbus, di grandi poli industriali comuni, civili e militari. E allora realizziamoli!
Diamoci da fare! Agiamo prima che sia troppo tardi! Facciamolo per riconciliare europei ed Europa, e per non tornare a quelle forme di nazionalismo che nel suo ultimo discorso, il suo testamento politico, François Mitterrand ci rammentò che portano a una cosa sola: la guerra.