Nella città della Florida il candidato repubblicano possiede un faraonico resort. Ma la metropoli è sempre di più un mix multietnico che guarda altrove: all’arte, al design, alla musica, alle avanguardie culturali

Foto di Giancarlo Ceraudo per l'Espresso
Sono passati 16 anni da quell’incredibile novembre del 2000, quando meno di 500 elettori della Florida decisero la sorte degli Stati Uniti e del mondo. Furono loro, con quel minimo distacco, ad assegnare al repubblicano George W. Bush i 25 “grandi elettori” del Sunshine State, consentendogli così di soffiare la Casa Bianca ad Al Gore, che pure aveva preso mezzo milione di voti in più a livello federale.

Anche oggi la Florida è considerata decisiva nella partita tra Hillary Clinton e Donald Trump: è uno “swing state” per eccellenza, sempre in bilico tra i due candidati. Secondo gli ultimi sondaggi, l’ex First Lady è in vantaggio di tre o quattro punti: forse per i troppi insulti del tycoon agli “ispanici” e alle minoranze etniche, che in Florida sono sempre più numerose e organizzate.
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Proprio in Florida, a poco più di un’ora da Miami, Donald Trump possiede un resort, adagiato sulla spiaggia di Palm Beach. Al centro di polemiche e processi, Mar-a-Lago è stato definito dal New York Times «una Versailles kitsch». Lì il miliardario ha vissuto part-time per decenni, lì ha ricevuto gli ospiti dopo il matrimonio con Melania e ha festeggiato alcune delle sue vittorie delle primarie repubblicane. Acquistato per meno di 10 milioni di dollari nel 1985, il “castello” sul mare di Trump ora viene stimato da Fortune tra i 200 e i 300 milioni. Chi c’è stato lo descrive come un’esibizione ininterrotta di opulenza, tra distese di marmo, lampadari scintillanti, tappeti orientali e arazzi fiamminghi del XVI secolo. Il tycoon in parte lo usa per sé (una sorta di “buen retiro”, un po’ come la tenuta di Crawford in Texas per Bush), in parte lo affitta, con guadagni attorno ai 160 milioni di dollari l’anno, sempre secondo le stime di Fortune.

Nonostante ciò, il rapporto tra il miliardario e la Florida non è affatto facile - come confermano i sondaggi - e i problemi più grossi sono proprio nell’area dove Trump ha casa: cioè la contea di Miami-Dade, che con il suo 67 per cento di ispanici oggi è una roccaforte democratica, tanto che a maggio i sondaggi davano Hillary avanti addirittura di 27 punti. E pochi giorni fa la Clinton ha incassato pure l’endorsement del sindaco (repubblicano) Carlos Gimenez.

Le ragioni di questa ambivalenza sono molte e tra queste c’è il fatto che Miami non è più solo la capitale del kitsch e dei pensionati bianchi che si rifugiano al sole. È una metropoli sempre più sofisticata, oltre che multietnica, con un’identità che si sta emancipando da molti vecchi luoghi comuni.

Basti pensare al boom, in città, dell’arte contemporanea, il cui merito principale va ad Art Basel, che quest’anno si terrà dal primo al 4 dicembre. Nel 2002 la nota fiera dell’arte svizzera ha aperto infatti anche qui. Da allora, ogni inverno, la città si trasforma: quattromila artisti e 260 gallerie coinvolte solo l’anno scorso, e party ovunque, bazzicati anche da Kanye West, Pharrell Williams e David Beckham (che è proprietario di una squadra di calcio locale).

Non c’è solo Art Basel, però. Nel 2013 ha traslocato a downtown, in un edificio disegnato da Herzog & de Meuron (anche loro svizzeri), il Pérez Art Museum. Costato 131 milioni di dollari, nasce per riflettere la complessità etnica della città, concentrandosi anzitutto sull’arte dell’America Latina. E poi c’è il distretto dei murales di Wynwood: una galleria all’aria aperta, 7 mila metri quadrati di mura dipinte da più di 40 artisti di strada, un complesso di magazzini industriali abbandonati che nel 2009 il costruttore Tony Goldman - noto anche per aver rivitalizzato SoHo a New York - invitò a usare come fossero tele. Oggi lo scenario è impressionante. Tra i mattoni di questi 30 edifici convivono ritratti del Dalai Lama e di Jimi Hendrix, le opere della giapponese Lady Aiko, di Logan Hicks e di Miss Van, e c’è chi definisce Wynwood la Mecca dei graffiti, intorno alla quale sono sorte birrerie, ristoranti e negozi.

Tutta la città si è rinnovata intorno alla cultura. Nel 2011, a South Beach è stato inaugurato il New World Center, un auditorium in vetro e acciaio disegnato da Frank Gehry, con megaschermi che accompagnano con le immagini i concerti. Il Bass Museum of Art raddoppierà invece gli spazi e presto aprirà anche il Faena Forum, un grande spazio espositivo firmato Rem Koolhaas.

Il mese di aprile, infine, si tiene il festival di poesia “O, Miami”. Il suo fondatore è un giovane scrittore, P. Scott Cunningham. «Questa città è molto diversa da 15 anni fa. È certamente molto più sicura, il crimine è un problema che non la definisce, non più di quanto succeda altrove negli Stati Uniti. Ma soprattutto è diventata una moderna città della cultura, grazie ad Art Basel e agli sforzi di tanti creativi e produttori locali», ci racconta. «I giovani hanno la forte sensazione che sia un ottimo posto dove esprimere la propria creatività intellettuale, e pochi lo avrebbero detto all’inizio degli anni Duemila».

Ci sono però anche degli aspetti per cui la città non è cambiata per niente, secondo Cunningham: «Vantiamo ancora un’incredibile diversità di persone, troppe delle quali però vivono sotto la soglia di povertà. Se sia più una città americana o latino-americana, come la definisce qualcuno? Ma no, americana, haitiana, cubana, brasiliana... è grande abbastanza da poter assorbire tutti questi differenti tipi di persone. Il bello di Miami è che non deve scegliere tra queste categorizzazioni, che sfugge a ogni definizione».

Nel 2004 lo United Nations Development Program stabilì che Miami era la grande città con la più alta percentuale di residenti nati all’estero, il 59 per cento. Secondo il censimento del 2010, solo l’11,9 per cento della popolazione è composta da bianchi anglofoni, il 19,2 è di origine africana, mentre per oltre due terzi è ispanica. In particolare, il 15,8 per cento sono centro-americani, ma la parte del leone la fanno i cubani, che rappresentano un terzo di tutti gli abitanti e non sono più raccolti solo a Little Havana. Intanto anche le altre comunità fanno parlare di sé, al punto che secondo il New York Times il nuovo quartiere più cool è Little Haiti, con il suo Cultural Center, i concerti all’aperto e quel Mercato caraibico che tanto ricorda il Marché en fer di Port-au-Prince. Così prova a rilanciarsi una zona difficile, in quel North-West del “ghetto” nero di Liberty City, dove a metà febbraio un bambino di 6 anni, King Carter, è stato ucciso da una pallottola vagante. Secondo lo scrittore Michael Deibert, Miami «offre sempre un trucco singolare, vale a dire che ha l’efficienza e la convenienza degli Stati Uniti ma non sembra farne parte del tutto. È una specie di quasi città-Stato che provoca reazioni forti in chi la visita, soprattutto da parte dei più “anglicizzati”, che non riescono a farsi capire in inglese da gran parte della popolazione locale, un’esperienza che li infastidisce e li allarma».

Città di outsider, artisti e immigrati, oggi Miami rappresenta molto più l’America rispetto a quella sognata dai nostalgici di Donald Trump. Anzi, Miami è un po’ l’America del futuro. Il suo vero problema, a guardar bene, non sono più droga e criminalità, ma il cambiamento climatico. Secondo alcuni studi molte sue parti rischiano di finire sott’acqua nei prossimi decenni, e le istituzioni stanno investendo centinaia di milioni. Hanno parlato con gli olandesi, che gli hanno detto: adattatevi, imparate a convivere con l’acqua. Adattarsi e convivere? A Miami? E che problema c’è?