Mondo
22 novembre, 2016

Donald Trump contro Mario Draghi: l'Eurozona adesso ha paura del tycoon

mario draghi
mario draghi

Protezionismo, antieuropeismo, avversione per le banche centrali. Come reagirà la Bce all'arrivo della Trumpnomics? L'ipotetico calo delle importazioni americane spaventa l'istituto di Francoforte, già impegnato a respingere gli attacchi interni all'Unione

mario draghi
Sistemata Hillary, c’è un’altra donna potente che Donald Trump mal digerisce e farà di tutto per levarsi di torno. Si chiama Janet Yellen, sua coscritta (1946), e dal febbraio 2014 governa la politica monetaria come presidente della Federal Reserve, ruolo che le ha consentito di guadagnarsi il terzo posto tra le donne più influenti del mondo, secondo Forbes, dopo Angela Merkel e la stessa Clinton. Ha studiato economia alla Brown University e a Yale, viene considerata progressista, suo marito e collega è il premio Nobel George Akerlof. Insomma, nulla di più lontano dai canoni femminili di The Donald.

Già in campagna elettorale l’aveva assalita per la politica di tassi di interesse bassi seguita, a suo dire, per compiacere Barack Obama e la candidata democratica Clinton. «Dovrebbe vergognarsi» ha strillato senza temere di interferire negli affari della Fed. Anche se è uomo di pochi scrupoli, difficilmente spingerà Yellen alle dimissioni prima della scadenza del mandato, nel febbraio 2018. Dovrà aspettare. Nel consiglio Fed ci sono del resto due posti vacanti e Trump potrà nominare subito qualche suo fedelissimo in grado di raccogliere tra un anno e mezzo l’eredità Yellen.
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La storia fin qui raccontata aiuta a capire la considerazione che Trump ha dei banchieri centrali e della loro autonomia. È in buona compagnia. A giudicare dagli attacchi del primo ministro inglese Theresa May alla banca centrale di Londra e da certe critiche tedesche alla Bce sembra chiudersi l’epoca in cui l’indipendenza degli istituti monetari era considerata un obbligo politico morale, ha scritto il “Financial Times”. Giudizi personali o sparate di Trump su Mario Draghi, presidente della Bce, non ne esistono. Certo, sono due personaggi diametralmente opposti dal punto di vista del pensiero, dell’etica e dello stile.

Draghi dovrà ora fare i conti con la Trumpnomics. I segnali non sono incoraggianti. Il primo europeo che il neoeletto presidente ha voluto incontrare è l’inglese Nigel Farage, nazionalista di destra, antieuropeista e promotore della Brexit. Il crollo dei bond in atto sui mercati e l’aumento dei rendimenti mettono in difficoltà i paesi con debito pubblico elevato (in Italia si è vista la netta ripresa dello spread, differenza tra Btp e Bund tedesco) e importano grande fragilità nell’area euro, dove le incertezze si moltiplicano e la navigazione si fa complicata.



Il nuovo inquilino della Casa Bianca è impegnato a «fare l’America più grande» attraverso riduzione delle tasse, investimenti in infrastrutture e politiche protezionistiche non esclusi dazi all’import. Non si sa in realtà quali programmi veramente realizzerà, ma Wall Street ha reagito bene. C’è ottimismo su un’epoca di espansione economica, ha fatto notare Vitor Constancio, vicepresidente della Bce, ma attenzione ai fattori che potrebbero mitigare se non addirittura invertire gli effetti internazionali di questa politica. In primo luogo le ventilate misure protezionistiche, sottolinea il vice di Draghi, in un’epoca nella quale il commercio internazionale sta già soffrendo di suo. L’eventuale calo di importazioni in America avrebbe effetti negativi su tutti e metterebbe a dura prova un’economia europea che fa già fatica a riprendersi dopo anni di recessione. Nei primi sei mesi del 2016 la crescita del prodotto interno lordo dell’area euro non è andata oltre l’1,7 per cento annualizzato, simile al 2015, mentre la disoccupazione resta attorno al 10 per cento: in America i senza lavoro sono la metà in termini percentuali e lo sviluppo del Pil si aggira vicino al 2 per cento.

Donald Trump

Centrale resta ora il nodo dei tassi. Dopo aver sbraitato per mesi contro la politica accomodante di Yellen, ora The Donald potrebbe da presidente trarne qualche vantaggio per finanziare gli investimenti annunciati. Ma nell’ambito Fed si sta valutando un’inversione di tendenza e un aumento potrebbe essere già deciso nella prossima riunione del 13-14 dicembre. Il vicepresidente della Fed, Stanley Fischer, ha detto all’indomani delle elezioni che l’istituto centrale ha raggiunto i suoi obiettivi di inflazione e occupazione e che, pur tenendo conto di un futuro piuttosto incerto, sarebbe opportuno «rimuovere gradualmente la politica accomodante». Bisogna vedere come Trump reagirà a un aumento dei tassi un mese prima del suo insediamento, nel gennaio 2017.
Un ritocco al rialzo potrebbe tutto sommato far comodo all’Europa nel breve termine, rafforza il dollaro e quindi indebolisce l’euro portando un po’ di inflazione. Ma l’isolazionismo americano rischia, d’altra parte, di importare sul lungo termine altra deflazione in Europa.

Il Consiglio della Bce si riunisce giovedì 8 dicembre. Deve decidere come continuare e modificare la politica di quantitative easing, allentamento monetario, quella che attraverso l’acquisto di titoli vorrebbe stimolare la crescita economica. I tedeschi torneranno alla carica per fermare nuove iniziative. Il rischio per Draghi, in un dicembre reso quanto mai turbolento dall’inizio dell’era Trump, è di trovarsi tra due fuochi. Quello americano e quello tedesco. Riuscirà anche stavolta a trovare una via d’uscita per l’Europa?

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