Dopo un lungo silenzio, torna a farsi sentire Abu Bakr al-Baghdadi. Lo fa con un appello alla resistenza militare in Siria e Iraq e a nuovi attacchi in Turchia e Arabia saudita. Mentre la macchina della propaganda ha già ricalibrato il tiro, dopo le sconfitte militari subite

Il Califfo torna a farsi sentire, dopo quasi un anno di silenzio. La scorsa notte una delle sezioni mediatiche dello Stato islamico, Furqan, ha reso pubblico un discorso audio attribuito ad Abu Bakr al-Baghdadi, l'uomo che il 4 luglio 2014 dal pulpito della moschea al-Nouri di Mosul si è autoproclamato Califfo.

Intitolato “Questo è ciò che Allah e il suo messaggero ci hanno promesso”, il discorso arriva in un momento cruciale. Dopo una lunga fase di espansione e conquiste territoriali, dalla metà del 2015 lo Stato islamico sta subendo una forte pressione militare. La tendenza all'allargamento delle aree del Califfato si è invertita: secondo un rapporto dell'ottobre scorso redatto dagli analisti del centro di ricerca IHS, dall'inizio del 2016 il gruppo avrebbe perso il 16% dei territori in Siria e Iraq, e più di un quarto rispetto al gennaio 2015. Dal 17 ottobre è in corso inoltre un'importante offensiva dell'esercito iracheno, sostenuto dagli Stati Uniti e da altri alleati regionali, per strappare agli uomini del Califfo Mosul. La battaglia per la seconda città irachena sarà lunga. Abu Bakr al-Baghdadi lo sa e con il suo discorso, registrato non più di dieci giorni fa, invoca «una guerra totale», fino al «martirio».

Il comunicato dura 31 minuti e mira a una platea differenziata. In primo luogo ai sostenitori del Califfo, ai simpatizzanti, ai combattenti sul terreno. A loro, Abu Bakr al-Baghdadi manda a dire innanzitutto che lui c'è, è vivo, pronto alla lotta e convinto della vittoria, nonostante le voci, ricorrenti nelle ultime settimane, sulla sua morte. Per convincere i sostenitori a non abbandonare il campo di battaglia usa due strumenti diversi: ricorda loro la necessità di adempiere i propri doveri di buoni musulmani e di obbedire ai superiori come atto di fede, e colloca le battaglie militari dentro una più ampia guerra tra gli autentici fedeli musulmani da una parte e le forze crociate e gli apostati dall'altra, una guerra di vecchia data, di cui il conflitto recente non è che l'ultima espressione.

Il fatto che lo Stato islamico debba combattere una coalizione così variegata di attori politico-militari, sostiene il Califfo, non fa che confermare la giustezza della strada intrapresa e la certezza della vittoria finale. Si tratta di una strategia retorica ampiamente adottata nei canali di propaganda dell'Is: l'idea che l'ampiezza del fronte nemico rifletta la grandezza del progetto califfale; la certezza che quanto più forte è la reazione dei nemici, tanto più legittima l'azione dello Stato islamico. La storia insegna che la resistenza, fondata sulla fede autentica, può condurre i più deboli a sconfiggere i più forti, dice il Califfo. L'obbedienza a Dio verrà ricompensata con la vittoria, la disobbedienza con la sconfitta per mano dei nemici.

Tra i nemici, non mancano i soliti noti. Innanzitutto gli sciiti. Abu Bakr al-Baghdadi si rivolge ai sunniti iracheni, chiedendo retoricamente se non si siano accorti che gli sciiti (gli iraniani e i loro uomini all'interno delle istituzioni irachene) stanno «facendo tutto ciò che è possibile» per conquistare l'intero Iraq. È un vecchio cavallo di battaglia, riconducibile al padre-putativo del gruppo, il jihadista giordano Abu Musab al-Zarqawi, fondatore di al-Qaeda in Iraq. Zarqawi vedeva nell'espansionismo degli sciiti nell'area una minaccia ancora più preoccupante della presenza dei crociati americani, e a partire da questa constatazione – in cui si combinavano elementi dottrinari ma anche una precisa scelta strategica – aveva enfatizzato la guerra contro gli sciiti e alimentato un virulento settarismo confessionale. Abu Bakr al-Baghdadi lo ha raccolto. E nel messaggio di questa notte è tornato a giocare la carta del risentimento dei sunniti iracheni, molti dei quali si sono sentiti marginalizzati a causa delle politiche settarie adottate dall'ex primo ministro, Nouri al-Maliki. Come in passato, dunque, il Califfo cerca di guadagnare consenso giocando sul revanscismo sunnita: «non vedete che vogliono occupare la nostra terra?», chiede ai suoi seguaci.

Abu Bakr al-Baghdadi include tra i «nemici di Dio» anche i regimi sunniti dell'area e la stessa Fratellanza musulmana, complice di questi regimi. Gli obiettivi polemici sono in particolare la Turchia e l'Arabia saudita. Paesi retti da governi eretici, al servizio delle mire egemoniche di ebrei e crociati. Le truppe turche vanno attaccate dovunque si trovino, in Siria soprattutto. Ma la battaglia contro il governo apostata turco va condotta anche all'interno dei confini del Paese governato da Erdogan. È un appello molto chiaro al jihad, che avrà importanti conseguenze militari. Lo stesso vale per l'Arabia saudita. Gli uomini del Califfo sono sollecitati a colpire scrittori, giornalisti, funzionari governativi, membri della casa reale dei Saud. La loro colpa è quella di aver preso le parti «delle nazioni infedeli nella guerra contro l'Islam e contro la comunità islamica in Siria e Iraq».

Il messaggio del Califfo è rivolto innanzitutto ai simpatizzanti del gruppo e agli attivisti sul campo. Gli ordini sono chiari: obbedite ai vostri superiori, mantenete la calma, combattete fino all'ultimo, fino al martirio che verrà ricompensato, e fino alla vittoria finale prevista dalle profezie. Tra i simpatizzanti sono inclusi anche i membri delle province esterne ai territori controllati in Siria e Iraq. A loro il Califfo dice di restare uniti, riconoscendo implicitamente il rischio che, con l'erosione territoriale e le sconfitte militari, possano crearsi spinte centrifughe tra i vari gruppi che a partire dal 2014 gli hanno riconosciuto l'autorevolezza religiosa, promettendogli obbedienza e fedeltà. Il rischio vale anche per i combattenti in Siria e Iraq: al di là dell'enfasi sul “disegno divino”, l'appello all'unità nasconde il timore di una defezione tra i ranghi militari.

Il messaggio è dunque un modo per rinsaldare il fronte interno, di fronte a sfide difficili. Ma è anche un messaggio rivolto ai “traditori”, ai sunniti della regione che non hanno sostenuto il progetto espansionistico del Califfo. O che ancora non hanno scelto da che parte stare. Per loro, il discorso vale da avvertimento: lo Stato islamico è ancora in grado di colpirvi, manda a dire al-Baghdadi. Che non nasconde, ma sminuisce e poi rivendica retoricamente le sconfitte militari, interpretandole come un segno divino, una prova prevista da Allah e dal suo messaggero in vista della vittoria finale. Vale anche per la recente morte di due tra i più importanti leader del gruppo, Abu Muhammad al-Adnani, storico portavoce e responsabile delle operazioni esterne, e Abu Muhammad al-Furqan, “ministro” dei Media.

Il significato del messaggio reso pubblico questa notte può essere meglio compreso se letto insieme a un importante discorso del 21 maggio scorso. Si tratta di uno degli ultimi comunicati di Abu Muhammad al-Adnani, il portavoce dell'Is, l'uomo che per molti anni ha indicato ai seguaci la rotta da seguire e gli obiettivi prioritari, ucciso dagli americani nell'agosto 2016. Per molto tempo al-Adnani, e con lui tutta la macchina della propaganda dell'Is, ha insistito sull'unico elemento che distingue lo Stato islamico da altri gruppi ispirati al jihadismo-salafita: il fatto di aver edificato il Califfato, di aver dato vita a un'architettura politico-istituzionale vera e propria, dotata di una macchina amministrativa. Si trattava di rivendicare la natura statuale dell'Is, e di accreditare l'annuncio della nascita di uno Stato islamico come l'avveramento di una profezia divina. La tenuta militare sul terreno, le conquiste territoriali conferivano legittimità a questa rivendicazione. A partire dalla metà del 2015, con la perdita dei centri urbani controllati in Siria e Iraq, le cose hanno però preso un verso differente. E la macchina della propaganda si è gradualmente adeguata alla nuova realtà.

Non è un caso che quando la pressione militare sui territori del Califfato è cresciuta, il portavoce del gruppo al-Adnani, fino ad allora spregiudicato e provocatore, abbia cambiato toni e atteggiamento, assumendo una postura più difensiva, derubricando la territorialità a elemento importante sì, ma non prioritario. Nella dichiarazione del maggio 2016 sostiene che lo Stato islamico non può essere ridotto alle terre che governa. Oltre che erede di una storia che comincia all'inizio degli anni Duemila, l'Is è portatore di un'ideologia e di un'utopia che resistono alla pressione militare, dichiara al-Adnani. Anche se dovesse perdere le città principali in Siria e Iraq, il gruppo continuerà a operare e a espandersi. «America, pensi forse che la vittoria coincida con la morte di uno o più leader?...In nessun modo! Vittoria significa la sconfitta dell'avversario....America, pensi che la sconfitta sia la perdita di una città o del territorio? Siamo forse stati sconfitti quando abbiamo perso le città in Iraq e siamo andati nel deserto, senza territorio né terre? Saremo forse sconfitti, e tu sarai vittoriosa, nel caso conquistassi Mosul, Sirte, Raqqa e tutte le città e noi tornassimo dove eravamo prima? No! Perché la sconfitta è la perdita della volontà e del desiderio di combattere».

Come è stato giustamente notato, con questo discorso al-Adnani segna un significativo passaggio retorico e strategico, che si riflette in seguito sui principali canali di comunicazione del gruppo. Lo Stato islamico rinuncia al suo motto, “rimanere ed espandersi”, e passa a enfatizzare soltanto il primo termine, il “rimanere”, la capacità di mantenere una presenza significativa nelle aree rurali e desertiche, tornando in qualche modo alla strategia del “ritiro rurale”, adottata tra il 2007 e il 2010, il periodo di maggior declino del gruppo, prima che ne prendesse le redini Abu Bakr al-Baghdadi. Gli appelli alle conquiste militari vengono quindi sostituiti da quelli alla pazienza, alla resistenza, alla resilienza. L'obiettivo non è più l'espansione, ma la sopravvivenza.

Non si tratta dell'ammissione di una sconfitta, tutt'altro. Gli strateghi del Califfato hanno ricalibrato la macchina della propaganda, enfatizzando alcune coordinate tematiche a scapito di altre, e confezionando in modo diverso la consueta narrazione sulla vittoria finale. Una vittoria inevitabile, sostengono, perché annunciata nelle profezie. Ma una vittoria posticipata per volere di Allah, il quale, come dimostra la storia dell'espansione dell'Islam fuori dalla penisola arabica, ha sempre messo alla prova i suoi fedeli. Le sconfitte militari recenti non vengono negate, ma lette come sconfitte tattiche, che non pregiudicano il grande disegno voluto da Allah e compiuto dal Califfo. Sono sconfitte che vanno  vissute e affrontate come prove divine (ibtila). Non solo sono utili, ma dentro una prospettiva storico-escatologica di ampio respiro risultano indispensabili per distinguere gli autentici fedeli dagli ipocriti. Non c'è fretta, dicono oggi gli strateghi mediatici del Califfato: la battaglia è ancora lunga. Lo Stato islamico può perdere alcune battaglie, ma è destinato a vincere. Bisognerà vedere se questa narrazione risulterà ancora vincente per un gruppo che, privo dei territori del Califfato, rischia di perdere buona parte della propria credibilità.

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