
Una trentina di poster, attaccati alla buona qua e là. Sui muri della grande hall circolare dove al bancone del Guest Service si viene accolti con gentilezza dagli impiegati, sugli scalini di fronte alla Millican Hall (uno dei luoghi tipici per gli appuntamenti tra amici), nei parcheggi e nei dormitori, un paio anche vicino alla grande statua di bronzo del Charging Knight, il cavaliere la cui carica simbolizza l’eccellenza accademica (e sportiva) della Ucf. Volantini stampati in modo casalingo, con diversi disegni ed un unico leitmotiv: l’orgoglio di essere bianchi.
C’è quello che raffigura una coppia (dai tratti tipicamente ariani) e dice «abbiamo il diritto di esistere» (come se negli Stati Uniti qualcuno lo mettesse in discussione), l’altro che raffigura un uomo (bianco) in catene con la dicitura «colpevolezza bianca, libera te stesso dal marxismo culturale», altri che inneggiano alla “White America” e a una nazione “Muslim Free”, cioè libera dagli islamici. Poster e volantini che hanno una firma precisa (AmericanVanguard), un sito web di riferimento (ReactionAmerica.com) e un’organizzazione che su Twitter si autodescrive come composta da «giovani bianchi americani che difendono i nostri diritti e la nostra nazione contro tutti i nemici, interni e stranieri».
L’università ha reagito, la denuncia partita dalla Central Florida Hillel - un’organizzazione ebraica del campus - ha trovato ascolto ai piani alti del rettorato, volantini e poster sono stati rimossi e la vicepresidente dell’Ucf Maribeth Ehasz ha inviato una email a tutti (studenti, professori, impiegati, personale di sicurezza) in cui si condanna «ogni forma di odio, discriminazione e ingiustizia». Ma la sensazione che qualcosa di poco piacevole stia covando sotto le ceneri di questa America fine 2016 si è diffusa rapidamente anche fuori dalle mura dell’Ucf.
American Vanguard è uno dei tanti gruppi di “suprematisti bianchi” che la vittoria elettorale di Donald Trump ha galvanizzato e che nel giro di pochi giorni hanno ritrovato una sopita baldanza e l’arroganza di un tempo passato. A lungo costretti alla difensiva per via degli scontri razziali, di movimenti come Black Lives Matter (la vita dei neri conta), di campus dove gli studenti liberal sono maggioranza e domina il “politicamente corretto” e anche di gang di afro-americani o latinos che sono l’altra faccia (violenta) della medaglia, decine di organizzazioni razziste che sotto varie sigle e organizzazioni si richiamano al “potere bianco” hanno visto nell’arrivo di The Donald alla Casa Bianca un’occasione per risorgere pubblicamente e regolare vecchi conti.
In Florida, ormai da diversi anni, questi gruppi hanno trovato nuova linfa (e nuovi adepti) grazie a una sorta di semi-clandestinità, spesso tollerata (quando non agevolata) da sceriffi locali, politici revanscisti, giudici compiacenti. E grazie anche alla paura che il nuovo terrorismo dello Stato islamico ha provocato nei confronti dei musulmani, più in generale degli immigrati e ancora più in generale di ogni minoranza “diversa”.
Il triangolo che ha come vertici Jacksonville, Orlando e Tampa e che taglia la Florida centrale da nord verso sud-ovest è una delle zone d’America a più alto rischio di violenze suprematiste. Se ci si limita a percorrere le grandi Highway (la 95 sulla costa orientale, la 4 che da Daytona Beach porta a Orlando e prosegue poi verso l’area di Tampa-St. Petersburg lungo il Golfo del Messico) è difficile cogliere, salvo qualche bandiera confederata nei giardini, nei portici delle villette a schiera o nei pick-up GM e Ford (con fucili annessi), segni di un razzismo più o meno latente. Le cose cambiano se ci si addentra nelle strade statali a doppia o unica corsia, quelle che attraversano cittadine e villaggi della Florida centrale e rurale.
Gainesville, che con i suoi quasi 200 mila abitanti è l’abitato più grande dell’area, è conosciuta al resto d’America soprattutto per i meriti sportivi del suo college. University of Florida (UF), o più comunemente Florida tout court, fa parte anch’essa del sistema scolastico statale del Sunshine State e i suoi Gators (diminutivo per alligatori) sono una delle squadre più titolate del football universitario americano (e tra le più amate anche fuori dalla Florida) con i tre titoli nazionali, gli otto di “conference” e i quattordici di divisione conquistati dal 1992 ad oggi. Negli ultimi anni Gainesville è diventata nota, trovando spesso la prima pagina nelle cronache politico-terroristiche, anche per le vicende di Terry Jones, il reverendo che si vanta di girare «con una pistola carica nella cintura» e che nel 2010 ha avuto i suoi quindici minuti di celebrità mondiale per aver bruciato pubblicamente il Corano nell’anniversario dell’11 settembre.
«Un genio della pubblicità e delle relazioni pubbliche», lo definì allora il New York Times, ricordando i tempi in cui l’unico Terry Jones famoso era quello dei Monty Python.
Nella sua Dove World Outreach Church, la chiesa di cui è pastore e signore (nel 2013 l’ha venduta per trasferirsi a Tampa), il Koran Burning Day fu un mezzo fallimento, con la contestazione di qualche decina di studenti e accesi scambi di slogan (e spintoni) con gruppetti organizzati di bikers con le bandiere sudiste e un paio di isolati cappucci del Ku Klux Klan. Gente di Gainesville e gente dei dintorni, ragazzi palestrati (e rasati a zero) in arrivo dai sobborghi di Orlando e Tampa, neonazi con svastiche e stivaloni che sembravano comparse di un film.
Erano in pochi, allora, ma oggi sono molti di più. Negli anni di Barack Obama, odiato presidente afro-americano (la Florida centrale ha una delle più alte percentuali di persone che credono alla leggenda-complotto che sia nato in Kenya) sono cresciuti di numero, si sono rafforzati, hanno cercato (e trovato) santuari dove riunirsi e addestrarsi in vista di quella che molti di loro considerano la decisiva resa dei conti contro i «padroni neri» (in un ribaltamento ideologico totale della storia razziale degli Stati Uniti). Due anni fa venne scoperto che un gruppo di questi suprematisti bianchi, chiamato American Front, si addestrava in un compound nelle vicinanze di Gainesville con AK-47, fucili da caccia ed esplosivi, preparandosi a quella che definiscono nei loro forum online (diversi sono stati adesso oscurati) la «prossima, inevitabile guerra razziale».
Dieci di loro vennero arrestati, per i procuratori di Orlando (in un processo che ha attirato centinaia di estremisti in arrivo da ogni parte d’America) avevano organizzato una vera e propria milizia che si configurava in tutto e per tutto come «un’organizzazione terrorista antisemita». Il loro capo, Marcus Faella, un 43enne di St.Cloud - cittadina di 30 mila abitanti sul lago Tohopekaliga, una quarantina di chilometri a sud-est di Orlando - se la cavò con sei mesi di carcere grazie alla ritrattazione di un informatore del Fbi che dopo averlo accusato disse di non ricordarsi più delle «minacce razziste» che Faella era solito pronunciare.
Anche nel campus di Gainesville hanno fatto la comparsa volantini a sfondo antisemita o più genericamente inneggianti alla supremazia dei bianchi. Lauren Poe, sindaco della cittadina, all’indomani dell’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump ha pensato che fosse meglio mandare subito un segnale alle possibili teste calde dell’area. Così, in quella che dai suoi critici è stata definita una «bizzarra conferenza stampa» - si è tenuta, in modo abbastanza improvvisato, sulla scalinata che porta all’ingresso del municipio - ha proclamato la sua città un «safe haven», un approdo sicuro per chi fa parte di minoranze: siano esse etniche religiose o sessuali. Lo ha fatto, ha precisato poi il sindaco, dopo aver saputo che nei giorni seguenti l’8 novembre si erano moltiplicati i casi di molestie e attacchi verso le minoranze. Si è attirato molte critiche, uno dei consiglieri comunali lo ha apostrofato con un «non c’era alcun bisogno di farla quella conferenza stampa, trovo assurdo che accanto a lui ci fossero il city manager e il capo della polizia». Forse invece aveva ragione il sindaco. Visto che lunedì 28 novembre, supporter e avversari di Trump si sono ritrovati nella Turlington Plaza della University of Florida dopo che un paio di svastiche erano comparse lungo i marciapiedi del campus. È finita con qualche slogan, insulti e spintoni. Qualcuno teme che nei prossimi mesi possa accadere di molto peggio.
bianc o
zitto