L’addio inglese ha gettato scompiglio tra i leader. Che mostrano di avere gli occhi chiusi e non reagiscono con timore. A partire dalla prudente Merkel. Che non riesce a diventare una statista

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L’Europa appare come afflitta da un’epidemia di sonnambulismo. Si prende qui a prestito un’azzeccata metafora dello storico Christopher Clark, autore di un bestseller mondiale («I sonnambuli») nel quale si faceva un parallelo tra l’incapacità della leadership europea del 1914 di evitare la prima guerra mondiale e di quella attuale di salvare l’Unione europea.

Oggi, a Brexit approvata, il docente di Cambridge ironizza sul fatto che personaggi come Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra capofila dei “Leave” e quindi vittorioso il 23 giugno, in realtà non sappia più cosa fare, da che parte voltarsi. Clark, più in generale, fa notare che «purtroppo le persone sono talmente cretine da non imparare nulla dalle lezioni del passato». Questi primi dieci giorni non sembrano dargli torto. L’Unione europea è a un passo dal baratro, ma a Bruxelles e nelle capitali è un continuo girovagare di sonnambuli che pensano più a sistemare le proprie faccende che a fermarsi e ad aprire gli occhi su quanto sta succedendo.

Nel suo ultimo libro («Mundus Furiosus») anche Giulio Tremonti parla di sonnambuli nelle istituzioni europee «che si aggirano sui davanzali, sui cornicioni e sui tetti del loro Palazzo» di Bruxelles, «come cercando gli ormai introvabili fantasmi di un glorioso passato». E citando le photo opportunity dei 28 leader riuniti ai vertici Ue sottolinea che «non li conosciamo, non conosciamo chi ci governa, chi fa cosa» e che nel loro vasto insieme «i fotografati in posa sembrano una forza vendita in gita premio». L’ex ministro delle Finanze di Berlusconi (si è forse dimenticato che negli archivi si trovano facilmente decine di foto di gruppo con lui in prima o seconda fila?) ora fa il professore e il polemista, ma i suoi giudizi sono condivisi da milioni di persone in Europa che magari votano Marine Le Pen in Francia o Geert Wilders in Olanda, Beppe Grillo o Matteo Salvini in Italia, un misto di nazional-populismo di ritorno che ha ottenuto dalla Brexit un bell’impulso.

Riusciranno i leader a “svegliarsi” in tempo? Qualche occhio si è aperto, ma non tutti guardano nella stessa direzione e si continua a camminare sui cornicioni rischiando di cadere. C’è stato subito un incontro post-referendum inglese tra Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi. Positivo, è vero. Però non sono sembrati tutti un sol uomo (o donna) nell’affrontare il primo nodo: quando, come e dove i britannici debbano uscire dall’Ue. Il presidente francese vuole una notifica immediata da parte del governo di Londra e una trattativa efficace e veloce, la Cancelliera è invece prudente sui tempi. Sandro Gozi, sottosegretario alle Politiche europee, sottolinea che le riunioni immediate di Parigi e di Berlino sono state importanti «ma che questo non è il momento di un Direttorio europeo perché ogni iniziativa deve essere aperta e inclusiva, per esempio è importante che la Spagna esca dalla sua crisi politica per tornare ad avere un ruolo».

I rapporti non sono facili. Ciascun leader ha da pensare e coccolare il proprio elettorato. Ogni miccia rischia di far saltare tutto, come vorrebbero euroscettici ed eurofobici. In parallelo alla Brexit è per esempio scoppiato il caso banche, capace di far litigare Berlino e Roma. Il quotidiano “Financial Times” (inglese) ne ha subito approfittato sbattendo lunedì 4 luglio in prima pagina il mostro Renzi, che vuol sfidare l’Europa sul salvataggio pubblico delle banche in crisi andando contro le regole del “bail-in” appena approvate. Il premier ha smentito e il negoziato con Bruxelles continua, ma la tedesca “Frankfurter Allgemeine” rincara la dose parlando di banche italiane Zombie.

Saranno mesi caotici. Dove si intrecceranno la grande trattativa per l’uscita del Regno Unito, la necessità impellente di trovare delle risposte alla domanda diffusa in Europa di più crescita, lavoro e sicurezza, l’avvicinarsi di appuntamenti elettorali molto importanti con la minaccia di nuovi successi nazional-populisti. Un calendario che non dà tregua. Tra settembre e ottobre si ripete il ballottaggio presidenziale in Austria dopo che la Corte Costituzionale l’ha annullato per irregolarità nel voto: a fare ricorso era stato Norbert Hofer, candidato dell’estrema destra Fpö, che aveva perso per pochi voti contro Alexander van der Bellen, indipendente sostenuto dai Verdi. Un eventuale ribaltone favorirebbe a Vienna l’ala antieuropea e fortemente xenofoba. A marzo tocca all’Olanda, dove favorito al momento è il partito di Wilders, populista e anti tutto: che il clima sia a lui favorevole lo si deduce dalla vittoria del referendum tenuto in aprile per dire no all’accordo tra l’Unione europea e l’Ucraina. Nel 2017 si vota sia in Francia, dove ha buone chance di vincere Marine Le Pen, ipotesi che fa tremare il debole e impopolare Hollande in un paese vittima del terrorismo internazionale e attraversato da manifestazioni e scioperi di rivolta sociale.

E poi c’è la Germania, dove si vota nell’autunno dell’anno prossimo. Angela Merkel non è al massimo della forma, anche se sa di essere «l’unica persona che in questo momento riesce», dice Gian Enrico Rusconi, politologo e studioso di storia tedesca, «a tenere insieme il Paese, con tutte le pulsioni interne, senza trascurare che, chiunque sieda a Berlino, la Germania è indispensabile all’Europa». Un’egemonia “vulnerabile”, che europei e gli stessi tedeschi non vogliono, ma che è nei fatti e forse anche necessaria se si pensa che gli interlocutori sono Stati Uniti, Cina e Russia.

A Berlino la cosiddetta Grande Coalizione in realtà traballa, anche se l’idiosincrasia tedesca per l’instabilità probabilmente alla fine vincerà garantendo la continuità. Fatto sta che i rapporti con gli alleati storici bavaresi della Csu sono al minimo storico e da tempo va male anche con i socialdemocratici,«il vicecancelliere e capo della Spd, Sigmar Gabriel, non ha personalità», aggiunge Rusconi, «e il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz non conta nulla». Poche ore dopo Brexit i due si sono incontrati e hanno messo a punto un piano in dieci punti per «Rifondare l’Europa», nel quale la Spd chiede più crescita e lavoro per i giovani, in linea con Renzi e Hollande, più giustizia sociale, una politica Ue democratica e trasparente, una voce unica a livello di rapporti internazionali, un rafforzamento della sicurezza e una politica comune sull’immigrazione. Ottimi propositi. Ma non si registrano particolari reazioni o commenti né in Europa né della Merkel, preoccupata più che altro per l’elettorato di destra. Il tema dell’immigrazione è molto sentito in Germania e le polemiche di sei mesi fa hanno rafforzato l’Alternative fuer Deutschland, gruppo antieuropeo con venature xenofobe che nei sondaggi ha raggiunto grossi numeri prima di fermarsi. Jens Munchrath, editorialista su temi europei per il quotidiano economico «Handelsblatt» dice che l’Afd è «relativamente piccolo e rispetto ai tempi della polemica sui migranti ha perso consensi nei sondaggi», di certo non raggiungerà i numeri della Le Pen in Francia.

C’è una Germania europeista, razionale e poco incline alle sorprese che nei sondaggi ritiene a maggioranza inverosimile e improbabile un effetto domino della Brexit in altri Paesi: sono elettori dei partiti di governo, ma anche Verdi, Linke e liberali (in realtà solo i simpatizzanti dell’Afd auspicano il contrario) e dal punto di vista anagrafico sono giovani tra 18 e 29 anni e quelli tra 30 e 44 anni. E c’è una Germania che ragiona in base agli umori e con la pancia, pronta a correre in libreria per comprare la nuova opera di Thilo Sarrazin, «Wunschdenken» (desiderio, utopia), un pamphlet contro l’immigrazione, i musulmani e le aperture della Merkel. Già ministro delle Finanze e dirigente della Bundesbank della Spd (ma nel partito viene osteggiato), Sarrazin era uscito nel 2010 con un saggio anti-euro diventato subito un bestseller.

In questa situazione incerta e complessa «Merkel deve continuamente mediare sia in Germania sia in Europa», commenta Muenchrath. Anche stavolta «prende tempo», osserva Rusconi, «e lo si vede sia nella trattativa con la Turchia, non ancora risolta, sia con la Brexit». Non è una visionaria o grande pensatrice, aggiunge il professore, ma ha notevoli capacità nell’intuire cosa voglia la gente, gode di un consenso trasversale, la si potrebbe definire quasi una populista. Rusconi, che esprime delusione per una classe politica e intellettuale tedesca poco coraggiosa («hanno fatto un grande lavoro di autocritica sul passato, hanno fatto l’Europa, ma oggi...») resta comunque ottimista sull’atteggiamento della Cancelliera verso la flessibilità economica, «alla fine cederà qualcosa a Renzi, farà tutto il possibile per tenerselo dalla sua parte».

Non altrettanto disponibile sembra essere Wolfgang Schäuble. In un’intervista piuttosto aggressiva il ministro delle Finanze si definisce choccato dalla Brexit e chiede un’accelerazione nella trattativa con gli inglesi (e qui è più vicino a Hollande e Renzi che alla stessa Merkel). Allo stesso tempo invita a «non alimentare ancora la falsa idea che si possa produrre crescita con nuovi debiti» (Renzi nel mirino?) e nega sia il momento giusto di lavorare a una maggiore integrazione dell’eurozona. C’è infine l’avvertimento a Jean-Claude Juncker e Martin Schulz: oggi non è il momento delle visioni, basta con i soliti giochetti europei, se la Commissione e l’Europarlamento non si muovono, ci penseranno i governi risolvendo i problemi tra loro, «l’approccio intergovernativo si è dimostrato efficace durante la crisi dell’eurozona».

Merkel è d’accordo? O è un gioco delle parti, tra i due? Di sicuro l’intervista ha creato tra sconcerto e irritazione a Palazzo Chigi. È un problema di politiche e di metodo, fa notare Gozi. Se con la Germania «c’è sintonia sui temi della sicurezza e dell’immigrazione, bisogna ancora lavorare su crescita e occupazione giovanile». Ma sul metodo non ci siamo, «perché bisogna ridare slancio alle istituzioni Ue e non basarsi solo sui negoziati tra governi o sugli incontri informali».

In questo caos europeo, tra frustrazioni e rifiuti dei cittadini e impotenza delle autorità pubbliche nel rispondere a domande di cambiamenti, ha detto la sua anche Mario Draghi. Commemorando a Monaco Theo Waigel (ministro tedesco delle Finanze negli anni Novanta, protagonista della riunificazione e dell’euro), il presidente della Bce ha citato una frase del teologo James Freeman Clarke, oggi molto attuale: «Un politico è un uomo che pensa alle prossime elezioni, mentre uno statista pensa alle prossime generazioni». Il riferimento è forse alla Merkel?