«Per i ragazzi egiziani è diventato un simbolo dei loro valori: cioè internet e libertà. Che l'Egitto ha soffocato». Parla l'attivista per i diritti umani ed ex leader universitario oggi in esilio

Quando l’Egitto sarà finalmente una democrazia il nome di Giulio Regeni dovrà essere ricordato come una figura istituzionale portatrice di verità». Minuto, molto gentile e con grande, aperto sorriso che infonde fiducia. Soprattutto, molto orgoglioso della sua maglietta verde con due grandi ali stilizzate sulle quali campeggia una parola araba. «Vuol dire libertà», dice al fotografo pregandolo di inquadrare anche la scritta. Abdelrahman Mansour, 30 anni, giornalista e attivista per i diritti umani, è venuto in Italia, a Roma, invitato da Arci e Amnesty International, per tenere una conferenza stampa alla Camera dei Deputati. Dove ha parlato del caso Regeni, dei giovani dissidenti egiziani, costretti all’esilio per sfuggire al carcere e alla repressione del regime, dell’importanza di RegeniLeaks, la piattaforma protetta de “l’Espresso” per cercare la verità, della necessità di fermare la fornitura di armi e di software spia all’Egitto, del governo al Sisi e del ruolo dei servizi segreti egiziani, non solo all’interno del Paese.

Nato in una famiglia della classe media nel 1987, Mansour è stato uno dei fondatori del Partito della Costituzione, presieduto dal premio Nobel 2005 Muhammad al-Baradei. Nel 2013, due mesi dopo il colpo di Stato, ha dovuto lasciare l’Egitto. Adesso vive in esilio in America, dove ha avuto un posto da visiting research alla University of Illinois di Chicago. Ma non ha tradito i suoi ideali e i suoi studi. «Continuo a studiare la Primavera araba, come i giovani di oggi si organizzano, il ruolo della tecnologia e di internet. Sto lavorando molto su “l’arte dell’assenza”, il movimento dei cittadini che sotto un regime si organizzano in maniera invisibile, sotterranea, per fare fronte alla mancanza di libertà».

Come vive da esiliato? Si sente al sicuro all’estero?
«A Roma, dove sono venuto per discutere del caso Regeni e per fermare la fornitura di armi all’Egitto, è successo qualcosa di significativo. Tra i presenti a un incontro c’era un egiziano che ha un ruolo istituzionale in Italia. Ho avuto la sensazione che registrasse e, sicuramente, scattava foto di nascosto con il cellulare a me e ad altre persone presenti. Ho avuto la sensazione netta che fosse un informatore. Non ho dubbi che fosse lì solo per passare informazioni all'ambasciata egiziana a Roma».

Khaled Said venne ucciso dalla polizia a soli 28 anni perché aveva scoperto e rivelato un traffico di droga condotto da alcuni agenti. La sua morte ha avuto un ruolo importante nei movimenti di protesta che portarono alla caduta di Mubarak. Il caso Regeni potrebbe avere altrettanta forza contro il regime di al Sisi?
«Khaled Said è molto importante per noi giovani egiziani. Venne arrestato in un Internet café, è stato torturato e ucciso, proprio come Giulio. La sua “colpa” è stata postare sul Web un video con cui smascherava un traffico di droga da parte di alcuni poliziotti. Era il 10 giugno del 2010. Al potere c’era ancora Mubarak. Ma da lì partì la campagna su Facebook, “Siamo tutti Khaled Said”, che ebbe un ruolo molto importante nella caduta del regime».

Potrebbe accadere lo stesso con Regeni?
«Giulio non era un politico, non era un attivista, era un ricercatore. Uno studioso che, nel suo campo, cercava la verità. Come Giulio, anche Said era un giovane della classe media che frequentava Internet e i social media. C’è un altro fattore che li accomuna: in entrambi i casi le campagne “Siamo tutti Khaled Said” e “Verità per Giulio” sono partite in modo spontaneo».

Cosa altro accomuna Khaled e Giulio?
«Il ruolo delle due famiglie: che non hanno mollato, non si sono rassegnate, soprattutto le madri. Stiamo parlando di persone che non fanno parte di schieramenti politici, non sono ideologizzate: lottano solo in nome della verità. Giulio ha subito tutte quelle forme di oppressione che i giovani egiziani subiscono ogni giorno. Ma la maggior parte di loro appartiene alle classi più povere e nessuno parla a loro nome. Così quando parliamo di Giulio, parliamo di migliaia di giovani egiziani che ogni giorno sono vittime di casi di arresto illegale, detenzione arbitraria, tortura, uccisioni dentro gli stessi commissariati».

L’Egitto è spaventato per gli sviluppi del caso Regeni?
«Credo che questo caso abbia creato il mal di testa al regime di al Sisi. Il dittatore all’inizio pensava che il caso si sarebbe affievolito, fino ad essere dimenticato. Non ha capito che avrebbe innescato conseguenze così forti. Passo dopo passo le cose sono cambiate. Soprattutto dopo il blocco dei ricambi per gli F16 deciso dal governo italiano».

Perché tanta ferocia da parte di un regime che ha il totale controllo del Paese?
«Ci sono più interpretazioni sul perché la controrivoluzione in Egitto abbia espresso tanta ferocia, prima di tutto contro i giovani, ritenuti destabilizzanti per il regime. Credo che sia una vendetta anche contro il mondo occidentale, perché loro vedono nella globalizzazione, in Internet, nei social network una spinta alla destabilizzazione. Per questo non ha mai preso in considerazione le proteste e i richiami dell’Occidente per il rispetto dei diritti umani. Quanto alla ferocia, voglio solo ricordare che il 14 agosto 2013, quando i militari hanno attaccato i manifestanti per Morsi, provocarono la morte di 1.200 cittadini in un solo giorno. Nel primo anno di governo al Sisi sono stati accertati almeno 289 casi di torture, 16 di violenza sessuale su detenuti. In soli quattro mesi, tra l’agosto e il novembre 2015, ci sono state 340 sparizioni forzate, tre casi al giorno. E stiamo parlando di dati forniti da Nasser Amin, che fa parte del Consiglio nazionale per i diritti umani in Egitto. Se queste sono le cifre ufficiali, dobbiamo domandarci: quali sono i veri numeri? Se soppesiamo tutto questo scenario possiamo capire cosa abbia subito Giulio».

Eppure, dall’Egitto, ancora nessuno è stato in grado di muovere una sola accusa contro Regeni.
«Dopo la controrivoluzione del 2013, anche i media si sono allineati portando avanti una campagna contro gli stranieri, rappresentati tutti come potenziali spie dell’Occidente. Così, se studi i sindacati indipendenti, per loro sei certamente una spia. Ai loro occhi Giulio non era solo un ricercatore dentro l’Università, ma un giovane che parlava arabo, incontrava i lavoratori nei quartieri popolari, che partecipava alle assemblee. Quindi una spia».

Qual è il ruolo delle Università? Molti giovani sono stati portati via dalla polizia proprio mentre si trovavano negli atenei...
«In Egitto non ci sono luoghi sicuri. Il 90 per cento dei presidenti delle unioni studentesche sostengono i valori della rivoluzione. Quando al Sisi ha nominato il nuovo ministro per l’Istruzione sono stati tutti fatti decadere per procedere a nuove elezioni. Che però hanno nominato di nuovo giovani anti al Sisi. È un tassello che il regime, nonostante tutto, non è ancora riuscito a dominare».

Nei suoi incontri a Roma ha puntato il dito contro i software di spionaggio che anche l’Italia avrebbe fornito all’Egitto...
«Uno dei punti importanti dei miei incontri è stato proprio portare al governo italiano il messaggio che questi software vengono usati contro noi egiziani, come forse sono stati utilizzati anche per intercettare e seguire Giulio. Negli ultimi anni gli apparati di sicurezza egiziani hanno avuto uno sviluppo tecnologico molto importante. Adesso controllano i nostri account sui social network, la posta elettronica, i nostri cellulari, le telefonate, gli spostamenti e i messaggi. Non ho certezze se utilizzino il software italiano o di altre nazioni, ma di sicuro siamo tutti spiati».