Il presidente ha tolto ?dalla miseria milioni ?di turchi. Ben disposti, per questo, a rinunciare alla libertà. ?E così si diffonde ?il "modello cinese". Ma metà del Paese sogna ancora uno stato laico in Europa

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Una gigantesca bandiera rossa con una mezza luna bianca sventola tra le due torri in vetro e acciaio del complesso in cui abita il giudice Nuh Kose, nel quartiere Atasehir di Istanbul, un’ora di macchina dal cuore antico della megalopoli turca. È una delle migliaia di bandiere che nei giorni successive al fallito colpo di Stato del 15 luglio sono state issate in tutta la città per celebrare la vittoria del governo sui golpisti e festeggiare la repentina trasformazione del suo controverso leader, Recep Tayyip Erdogan, in Salvatore della Patria e Sultano dell’Impero.

Ma all’interno di questi grattacieli, abitati quasi esclusivamente da magistrati, c’è poco da festeggiare. Negli ultimi giorni è stato tutto un andirivieni di poliziotti col giacchetto antiproiettile blu: «Hanno portato via tanta gente, molti ancora in pigiama», racconta il portiere. Tra arrestati e rimossi dall’incarico, i dati ufficiali parlano di oltre tremila giudici, all’indomani del fermo di ottomila militari,del licenziamento di novemila poliziotti, delle dimissioni forzate di migliaia di funzionari pubblici e di centinaia di esponenti religiosi, della cacciata del 90 per cento dei rettori di tutte le università del Paese e della revoca della licenza di insegnamento a 36 mila professori, in maggioranza impiegati in migliaia di scuole private.

Complessivamente 60 mila dipendenti statali su 500 mila sono stati finora incarcerati o rimossi, in una massiccia epurazione del sistema pubblico che non è solo la risposta al fallito golpe del 15 luglio ma anche il più potente strumento di consolidamento di potere assoluto.

Impossibile non intravederne conseguenze indelebili sul futuro politico, culturale ed economico di uno dei maggiori Paesi della Nato, alleato complicato ma indispensabile nella lotta al terrorismo islamico dell’Occidente, che da oggi in poi rischia di risultare infiacchita tra i generali arrestati, molti dei quali lavoravano con gli Usa nelle operazioni anti Is.

«La democrazia è ufficialmente morta. Il controgolpe è iniziato», dice senza incertezza Ahmed Shafik, l’intellettuale dissidente più esposto del Paese, finito in carcere quattro anni fa per avere scritto un libro sui rapporti tra lo Stato e il movimento di Fethullah Gülen, il predicatore esule negli Stati Uniti, oggi nemico numero uno di Erdogan, ieri alleato fidato con cui infiltrare lo Stato e indebolire lo storico strapotere dei militari.

Visibilmente scosso, terrorizzato dall’idea di finire di nuovo in carcere, Shafik è però determinato a non censurare le sue parole: «L’intera società sarà epurata. Passo dopo passo. E non solo dai gulenisti ma da tutti gli oppositori. Erdogan lo può fare perché metà della popolazione lo adora e l’altra metà è ormai incapace di fermarlo».

Il regime studia ogni passo con cura. Nulla è lasciato al caso. Per ringraziarli del loro intervento nelle strade a suo sostegno contro i carrarmati (una prima assoluta in Turchia) il Sultano ha invitato i cittadini a fare festa in piazza per una settimana. In regalo non solo le bandiere ma anche minuti di conversazione sui telefonini, sms e passaggi gratuiti sui mezzi pubblici. Ogni sera aumenta il volume della musica in piazza Taksim e cresce il numero delle bandiere, come se non sventolarle potesse essere considerato sovversivo. Il consenso del popolo, quello che i golpisti cercavano e non hanno trovato, è tutto per lui, «colui che ci ha ridato la libertà», spiega una giovane donna durante un picnic con la sua famiglia nei giardini pubblici del quartiere di Fatih, «che non ci costringe a scegliere tra il velo e un lavoro nell’amministrazione pubblica come in passato».

Questo è il momento dei grandi cambiamenti, quello in cui la Turchia laica di Kemal Ataturk lascia il passo a quella islamica di Erdogan. E per farlo deve cambiare soprattutto faccia. «Un’intera generazione di funzionari pubblici è stata eliminata», dice Ertugrul Kurkgu, uno degli oppositori storici del golpe militare del 1971, 14 anni passati in carcere, ora presidente onorario del partito democratico: «Stiamo vivendo il momento più incerto della nostra storia moderna».

Non è la prima volta che il Paese è diviso tra fazioni che si detestano ferocemente. La Turchia del secolo scorso era famosa per i suoi numerosi colpi di Stato: uno ogni decade, a partire dal 1960. Ma questa volta la situazione è più complessa. La lotta oggi è tra fazioni islamiche, tra Erdogan e Gülen, quest’ultimo sospettato di essere spalleggiato dagli Stati Uniti, contro i quali il governo turco si è scagliato mettendo a rischio anni di stretta alleanza.

Ma il timore diffuso è che, vinto lo scontro contro il movimento rivale, Erdogan si scagli contro il “popolo di Ghezi Park”, cioè l’anima democratica, laica e socialista della Turchia, riaprendo ferite storiche mai davvero rimarginate. «Se prima combattevamo contro un fascismo militare adesso ci ritroviamo con un fascismo islamico», tira corto Melda Onur, parlamentare del partito repubblicano del popolo, capelli biondi e abito rosa, una vita all’opposizione.

Certo non è un bel segnale il recente annuncio di voler tirare fuori dal cassetto, a soli tre anni dalle proteste che hanno fatto il giro del mondo, il progetto di ristrutturazione del parco di Ghezi, con una variante chiave: una caserma accanto alla moschea, come ai tempi dell’impero ottomano.

«I gulenisti volevano toglierci il potere che abbiamo conquistato con il voto e noi non glielo abbiamo permesso», dice un elettricista al funerale di una delle 280 vittime del 15 luglio: «Ora vogliamo giustizia». Ma “giustizia” è insieme la parola più inflazionata e più opinabile della Turchia di oggi. È nel suo nome che le folle invocano il ritorno alla pena di morte, abolita solo una decina di anni fa, quando l’ingresso nell’Unione europea sembrava un sogno sul punto di avverarsi, mentre oggi non è più una priorità per nessuno. Il presidente si guarda bene dal limitare l’entusiasmo per la pena capitale e si limita a delegare la questione al Parlamento. «Sa bene che noi liberali, democratici e socialisti non potremmo mai votare a favore della pena di morte», sbotta Kurgku: «È solo un modo per screditarci di fronte all’opinione pubblica ».

Per il giudice Kose, occhi chiari su un viso ben rasato di stampo normanno, la giustizia è stata una ragione di vita. «Pensavo che conoscendo la legge sarei potuto diventare un uomo più libero e avrei potuto dare giustizia ai cittadini più deboli», sospira dal suo divano color crema: «Ma non è stato così. Ho capito solo molto tempo dopo che la giustizia non è solo materia per giudici e che in Turchia il sistema giudiziario non è più indipendente».
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L’inizio della perdita di autonomia lo identifica - e non è il solo - con il 2010, anno in cui Erdogan ha cambiato molte cose nel Paese, tra cui l’esame per entrare in magistratura, immettendo nel sistema una nuova generazione di giudici, in previsione di una massiccia sostituzione. Da allora, con una serie successiva di riforme, il potere giudiziario è passato - il popolo consenziente, l’Unione europea tiepida nella condanna - sotto il controllo del potere esecutivo. Morale: oggi Kose ha difficoltà nel pronunciare pubblicamente l’aggettivo “illegale” in riferimento all’arresto di migliaia di giudici senza prove evidenti della loro partecipazione al tentato colpo di Stato. «Diciamo piuttosto “situazione problematica”», sorride. E aggiunge: «Ho visto arrestare anche due miei amici e so per certo che non c’entrano nulla con il movimento gulenista accusato del golpe».

A Istanbul Kose e la moglie Uygun, un’infermiera, si sono trasferiti di recente. Sono originari delle cittadine conservatrici di Ordu, sul Mar Nero, e di Corum, in Anatolia, luoghi dove le donne girano velate e tutti conoscono tutti. Il quartiere in cui si sono trasferiti a Istanbul è uno di quelli nuovi, sul lato asiatico della città. «Ci abita della nuova classe benestante», spiega Uygun: «Presto vi sorgerà un moderno centro finanziario».

Come loro, milioni di cittadini hanno beneficiato delle politiche economiche di Erdogan che, con il suo boom edilizio e i nuovi rapporti commerciali a Oriente, ha trasformato una buona parte dei poveri del Paese nella nuova classe media, affiancandoli alle élite liberali tradizionali. Sono state costruite abitazioni e infrastrutture da primo mondo dopo un Ventesimo secolo in cui la maggior parte dei turchi faceva lo slalom tra miseria e repressione militare.

Insomma, è stato siglato un patto implicito simile a quello stretto con i suoi cittadini dal Partito comunista cinese: benessere contro libertà.

Forse è questo il segreto della vittoria di Erdogan. E delle bandiere che ora sventolano tutta la notte per lui.