Basta con l’austerità. È l’ora di un social compact per combattere le disuguaglianze. Ma tutto dipende dalle prossime elezioni in Germania
Dopo il Fiscal Compact avremo un Social Compact? L’Europa delle regole di bilancio, che pilotano da tre anni a questa parte le scelte dei governi su debito e spesa pubblica secondo l’ortodossia fiscale voluta dalla signora Merkel, e impongono di ridurre il disavanzo sotto l’asticella del tre per cento e il debito non oltre il 60 per cento del Pil, questa Europa si è resa conto di aver perso il continente per strada, o almeno gran parte dei suoi abitanti, e corre ai ripari. Non risparmia tagli amari a chi sgarra, per carità, ma punta a ricostruire una narrativa dell’azione politica del continente che non parli solo di banche e di tasse, ma anche di capitale umano. Lo farà a fine marzo, quando a Roma si celebreranno i 60 anni del Trattato fondante della comunità economica, mettendo sul tavolo dei suoi 27 soci i nuovi “pilastri sociali” a cui intende puntare, sussidio di disoccupazione europeo in primo luogo. «E su questo vogliamo andare avanti anche se non saremo tutti d’accordo», promette Sandro Gozi, sottosegretario con delega agli Affari europei.
La scommessa è alta, tanto più che l’Europa non è mai stata tanto divisa. Eppure se il faticoso percorso (proposte, pubblica consultazione condotta da Bruxelles, libro bianco) sfocerà davvero in un compact dei diritti sociali e non resterà libro dei sogni, lo si dovrà ancora a lei, alla signora Merkel.
«Dobbiamo conquistare la tripla A anche sui temi sociali, non solo sulle questioni finanziarie», proclamava già nel 2014 l’appena eletto presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Aspirazione finora delusa: la tripla A assegnata dalle agenzie di rating alle economie più solide in Europa se la possono permettere in pochi (Germania, Olanda, Svezia, Danimarca, Finlandia e Lussemburgo), ma ancora meno se la meritano sul piano sociale. Tutto impegnato a combattere la Grande crisi, l’establishment europeo ha via via perso di vista i problemi dell’uomo della strada. Ha costruito le basi su cui far crescere il libero mercato, la concorrenza, le politiche commerciali, ma ha lasciato indietro i temi su cui era stata edificata l’Unione: l’inclusione, l’offerta di uguali opportunità, e i modelli più avanzati di welfare.
Quello che il sociologo tedesco Ralf Dahrendorf preconizzava, e cioè che la globalizzazione avrebbe messo in crisi quel difficile equilibrio tra esigenze di crescita, coesione sociale e libertà politica, si è improvvisamente materializzato come il peggiore degli incubi europei. La globalizzazione è stata vista come l’origine di tutti i mali, sono risorti i nazionalismi, i regimi democratici non sono più considerati in grado di garantire i diritti di tutti, ma soprattutto quelli dei “nativi”, con il seguito di sentimenti xenofobi che esplodono e alimentano la rinascita di partiti di destra.
A questo punto l’Europa degli esclusi, dei disoccupati, dei giovani “neet” né al lavoro né a scuola, il continente che ha visto crescere le disuguaglianze e allentarsi la solidarietà, il continente che ha paura del presente e del futuro, non sarà facile da riconquistare al progetto comunitario. Eppure in questo anno cruciale di elezioni politiche in paesi cardine come Francia e Germania, è questa la partita che si vedrà giocare.
Il fischio di inizio, nel settembre scorso, lo ha già dato il Club Med, cioè i paesi della sponda Sud d’Europa, aprendo la battaglia contro l’austerity, totem eretto da quelli del Nord, con la firma ad Atene di una Carta a favore di una maggiore flessibilità economica. Il bersaglio principale era - ed è ancora oggi - la Germania, che dell’Europa è lo stakeholder di peso: «Quando i leader socialisti si incontrano il più delle volte non esce niente di intelligente», ha reagito acido il suo ministro dell’Economia Wolfgang Schäuble, il falco del rigore dei conti.
Eppure il vento stava cambiando. Dall’altra parte dell’Oceano contro l’austerity aveva dato man forte l’Obama di fine mandato, mentre anche il Fondo monetario internazionale lanciava con i suoi economisti dei dubbi sugli effetti del taglio del debito a tutti i costi e sul teorema europeo dell’austerità espansiva che espansiva non è affatto. Fino ad arrivare alle critiche che l’organismo di Washington guidato da Christine Lagarde ha rovesciato sugli europei per la cura imposta alla Grecia, che invece di salvarla le fa rischiare l’osso del collo.
Se oggi la Grecia è di nuovo sull’orlo della bancarotta e bisognosa di altri aiuti, se tutta l’area dell’euro è tornata nella tempesta degli spread impazziti, di chi è la colpa? E di chi è la colpa dell’avido mercantilismo che ha cambiato i connotati dell’Europa, “sociale” per vocazione? Così insufflano oggi i movimenti anti-establishment. Risposta ovvia: ma del più grosso e più ricco della compagnia, della Germania, of course. Tanto che persino Donald Trump l’ha accusata di essersi abbuffata troppo sui mercati mondiali con l’aiuto dell’euro debole, come dimostra quel surplus commerciale da paura accumulato mentre gli altri erano costretti a inghiottire austerity e rabbia. «L’austerity non è stata imposta dalla Germania, ma dipende solo dai governi nazionali», obietta l’economista Veronica De Romanis: «se, come in Grecia, il disavanzo arriva al 15 per cento del Pil e i mercati non si fidano più, che fai? Chiedi aiuto ai partner. Ma non ottieni un assegno in bianco: devi offrire condizioni per mettere il paese in grado di restituire il prestito. E quelle condizioni le hanno pretese tutti, dal Portogallo alla Lettonia, non solo la Germania».
«D’altra parte», prosegue De Romanis, «le regole fiscali sono sui saldi, non su come ottenerli: dove tagliare è una scelta nazionale, come anche nel caso del taglio di 3,4 miliardi chiesto ora all’Italia». Il gioco di tutti contro uno, insomma, può rivelarsi un boomerang: «Lo spirito di rivalsa contro la Germania rischia di spaccare l’Europa», ha avvertito allarmato Mario Monti.
Angela Merkel si trova sulla linea di tiro non solo in Europa ma anche in casa. La campagna elettorale per la sua riconferma alle elezioni del prossimo ottobre vede un antagonista più pericoloso del previsto in Martin Schulz, ex presidente dell’Europarlamento e ora campione dei socialdemocratici, a cui i sondaggi attribuiscono il 30 per cento, consenso che lo Spd non vedeva da tempo. Per non parlare delle spine a destra, rappresentate dall’Afd, l’Alternativa per la Germania che vorrebbe ritorno al marco e frontiere chiuse. Sul cammino della cancelliera il riesplodere del caso Grecia, con la richiesta di nuovi aiuti da far inghiottire al Parlamento tedesco, non è proprio il migliore dei viatici. E sempre più delicato diventa il rapporto con la Bce guidata da Mario Draghi. La situazione economica tedesca mette il governo di fronte a un nodo gordiano: da un lato, ha beneficiato a piene mani della politica dei tassi bassi e del quantitative easing voluta da Francoforte, che l’ha aiutata a spingere il suo surplus commerciale alla cifra record di 253 miliardi, come ha ammesso lo stesso Schäuble (anche se il grosso della crescita è stato all’interno dell’area euro); dall’altro lato, l’inflazione tedesca è l’unica ad aver rialzato la testa in un continente in cui il rischio più diffuso semmai è la deflazione.
Per questo, Berlino vorrebbe che la Bce mettesse la parola fine alla stagione dei tassi zero, e tornasse a imboccare quella delle strette monetarie. Con un rialzo dei tassi i risparmiatori tedeschi non piangerebbero più sull’erosione dei propri risparmi, e il clima elettorale diventerebbe più sereno.
Ma fare un favore alla Germania, di questi tempi, è cosa assai impopolare, e Angela lo sa. A meno di non fare in modo che la Germania lo restituisca in moneta sonante. E plateale. Si può interpretare così l’uscita della cancelliera a proposito delle “differenti velocità” nell’integrazione europea con cui ha spiazzato tutti al vertice di Malta di inizio febbraio. Che non allude al doppio euro, uno forte del Nord e l’altro di serie B del Sud, ma appare un segnale di disponibilità a scendere a patti. Per che cosa? «L’Italia stava lavorando insieme al Benelux esattamente a questo: un memorandum per utilizzare la cooperazione rafforzata su obiettivi comuni, senza la necessità di essere tutti d’accordo», racconta Sandro Gozi. «Poi la Merkel ci ha sorpassato lanciandola per prima: va benissimo, vuol dire che il 25 marzo, quando ci incontreremo a Roma per il sessantesimo del Trattato, la strada sarà spianata». La cooperazione rafforzata è uno strumento previsto dalle procedure europee in alcuni ambiti, ed è stata già usata in tre casi: sull’adozione del brevetto unico europeo in tre lingue, sul divorzio tra coniugi di diversa nazionalità, e sulla Tobin tax. Tutte questioni molto tecniche e circoscritte. «Ora si potrebbe usare anche per gli obiettivi che sono stati lasciati indietro nella costruzione europea», dice Gozi: «l’inclusione, la lotta contro le disuguaglianze, la disoccupazione giovanile. Serve un nuovo patto per il sociale».
Un esempio di che cosa si può ottenere percorrendo la strada della cooperazione rafforzata? «Il sussidio europeo di disoccupazione», afferma il sottosegretario. Una rivoluzione. «Cercheremo di essere più inclusivi possibile, ma se non riusciamo ad andare avanti in 27, non ci fermiamo: basta che siano d’accordo almeno nove membri e si può andare avanti». Ma solo se la Germania del rigore dirà di sì. Per questo è importante che Angela resti lì.