Economia
L’industria è in crisi anche in Germania: e i colossi fanno le valigie
Viessmann vende, BioNtech sposta la ricerca in Gran Bretagna, Bosch produce in California. A pesare sono la concorrenza di Usa e Cina e l’eccesso di burocrazia europea
L’industria tedesca va alla riscoperta dell’America. Il 39% delle aziende made in Germany interessate a investire non puntano sull’Europa ma sugli Stati Uniti, secondo quanto riporta un sondaggio della Camera di commercio tedesco-statunitense Ahk. In questa scelta non c’è l’ottimismo di chi immagina oltre l’Atlantico “paesaggi in fiore”, per usare una metafora cara a Helmut Kohl, quando nel 1990 descrisse le prospettive economiche che si sarebbero aperte con l’ingresso dei “nuovi Laender”.
Piuttosto è una decisione che ha il sapore del contenimento dei danni, il male minore dopo due anni di pandemia, di colli di bottiglia nella catena del valore e di crisi energetica dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Il timore ora è di rimanere schiacciati dalla concorrenza globale tra Usa e Asia, di non poter più investire come prima sui mercati asiatici, sempre più a rischio di rimanere ostaggio delle tensioni geopolitiche tra Usa e Cina. È in questo quadro che si colloca la decisione di tre «campioni del mercato europeo» tedeschi che hanno annunciato di avere pronte le valigie in queste ultime settimane: il leader di mercato di condizionatori, caldaie e pompe di calore Viessmann, l’azienda biofarmaceutica BioNTech - che ha brevettato nel 2020 il vaccino per il covid-19 poi ceduto al 50% all’americana Pfizer Comirnaty - e Bosch, che farà in California il più grande investimento della sua storia. Si tratta di tre storie diverse con una linea rossa: la Germania non è più terra di interesse per le stesse aziende tedesche.
Vendita e contrazione del fatturato sono i due fantasmi dell’economia tedesca. Per questo la vendita al concorrente statunitense Carrier per 12 miliardi di Viessmann - che si contende quote di mercato con l’altro gigante tedesco, Vaillant - ha fatto fibrillare il Paese. Si tratta di una delle aziende di famiglia più note in Germania, fondata 106 anni fa dal signor Johann Viessmann. In questi anni l’azienda di Allendorf in Assia, oltre 14.000 dipendenti in 22 Paesi del mondo, ha beneficiato più di ogni altra dell’accelerazione impressa nella transizione energetica dal governo di Berlino. La fine dei rapporti di fornitura di gas e petrolio dalla Russia, la legge sugli impianti di riscaldamento dal gennaio 2024, assieme agli incentivi statali fino al 40% per l’installazione di pompe di calore, hanno prodotto un’enorme spinta in avanti. Con un significativo rialzo del fatturato aziendale, cresciuto del 19% nel 2022 rispetto al 2021, a sua volta già salito del 21% rispetto al 2020.
E allora perché vendere? «Abbiamo a che fare con un enorme concorrenza globale nel mercato delle pompe di calore e come impresa di famiglia alla lunga non possiamo reggere la concorrenza. Solo con Carrier possiamo essere un’impresa che può gestire la competizione ad un livello di parità e rimanere concorrenziali sul lungo periodo», ha spiegato il patriarca Martin Viessmann, 69 anni, alla Frankfurter Allgemeine Zeitung. In confronto ai colossi del mercato globale Viessmann è una piccola azienda che avrebbe bisogno di investimenti non solo finanziari per restare al passo. «La dimensione industriale diventerà in futuro un importante fattore di successo», sostiene Max Viessmann, l’erede 34 enne che ora siederà nel consiglio di amministrazione di Carrier, in un’intervista a Handelsblatt. «Il mercato deve essere sufficientemente grande per consentire reali economie di scala e per trasformare più rapidamente le innovazioni prodotte in casa in grandi volumi» anche in Europa, ha commentato il presidente della confindustria tedesca (Bdi) Siegfried Russwurm.
Oltre ad avere un ampio mercato gli Usa offrono facilitazioni sotto forma di incentivi e agevolazioni fiscali grazie all’Inflation Reduction Act, voluto dall’amministrazione Biden per rilanciare l’economia verso investimenti sostenibili. Un’idea mutuata dal Green Deal della Ue, nato all’indomani della pandemia. «L’idea del Green Deal è giusta e ben ponderata - dice Anno Borkowsky, membro del CdA dell’azienda chimica Lanxess - ma in Europa riusciamo sempre a trasformare progetti importanti in un mostro burocratico».
Agli investimenti si accompagna una regolamentazione europea, cui si sommano quelle nazionali e regionali. Schiacciati dal peso degli adempimenti burocratici che rallentano i procedimenti, spesso le aziende finiscono per trasferire la produzione, e a ruota emigra anche la ricerca. È il caso del gioiellino della farmaceutica tedesca BioNTech. L’azienda di Magonza ha reso noto a metà febbraio di voler aprire un centro di ricerca con 70 dipendenti a Cambridge, dove inizierà gli studi clinici per il vaccino sul cancro da concludere entro il 2030, con la collaborazione di un partner inglese. Solo due settimane prima il cancelliere Olaf Scholz, visitando il laboratorio dei due fondatori di BioNTech aveva ammesso il problema: «quando si tratta di progresso medico, abbiamo bisogno di un quadro legislativo che renda possibile condurre rapidamente la ricerca, lavorare con i pazienti e utilizzare i dati. Ho fatto questa promessa qui». Evidentemente poco convinti, Uğur Şahin e Özlem Türeci, i due tedeschi di origine turca fondatori dell’azienda, hanno annunciato di spostare la ricerca altrove. Bosch infine ha reso noto un mega investimento da 1,5 miliardi di dollari per l’acquisto di una fabbrica di semiconduttori a Roseville, in California, che produce la tecnologia chiave per le autoelettriche, i chip. Tra i più grandi fornitori di componenti per auto, Bosch conta sulle sovvenzioni del Chips Act Usa e sposta una parte della produzione, mentre il piano di Intel di produrre chip in Europa langue.