Il dittatore della Corea del Nord lancia missili, uccide i rivali, minaccia i vicini. E adesso un attacco Usa non è più fantapolitica

Abbiamo un grosso problema... Così Barack Obama, ricevendo il 10 novembre scorso Donald Trump, appena eletto alla presidenza degli Stati Uniti, comunicava al suo successore l’imminenza del pericolo nordcoreano. L’intelligence americana era infatti giunta alla conclusione che il regime di Pyongyang avesse compiuto un salto di qualità nella sua pianificazione strategica.

Dopo anni di interminabile braccio di ferro con gli Usa e con le altre potenze mondiali, nel quale la Corea del Nord si esibiva in test atomici destinati soprattutto a ottenere aiuti economici ventilando la minaccia dello sviluppo di un proprio arsenale nucleare, il nuovo leader Kim Jong-un ha infatti cambiato strategia. L’obiettivo adesso non è esibire capacità nucleari per sovvenzionare un Paese che altrimenti rischia la fine. Si tratta invece di prepararsi alla guerra atomica. Pronti a colpire per primi la Corea del Sud, il Giappone, le basi americane in Asia e, in una prospettiva di quattro-otto anni, perfino la costa occidentale degli Stati Uniti. Secondo le previsioni del Pentagono, infatti, la Corea del Nord potrebbe dotarsi di missili balistici intercontinentali (Icbm) teoricamente in grado di vetrificare San Francisco e Los Angeles entro la fine di questo mandato di Trump.

Reportage
Corea del Nord, un luna park sulla neve per il dittatore
22/3/2017
Il 6 marzo scorso il regime di Pyongyang ha lanciato quattro missili capaci di portare una testata nucleare miniaturizzata verso il Mar del Giappone, a un migliaio di chilometri di distanza. Si tratta di vettori Scud perfezionati, ammarati non lontano dalla base giapponese di Iwakuni, che ospita gli F-35 americani pronti a colpire la Corea del Nord. Il lancio è avvenuto mentre erano in corso le manovre congiunte sudcoreano-statunitensi denominate Foal Eagle, con cui i due alleati simulavano un attacco alle infrastrutture missilistiche e nucleari nordcoreane. Il messaggio non poteva essere più chiaro.

Nella strategia nordcoreana la bomba atomica potrebbe in futuro essere impiegata in funzione preventiva e/o provocatoria contro Seul e/o Tokyo, tenendo di riserva la possibilità di un secondo colpo contro la California con missili balistici intercontinentali, nella speranza che Washington non vorrà mettere a rischio le sue metropoli per distruggere Pyongyang con una testata nucleare. Potrà apparire una follia. Ma per Kim Jong-un la vera pazzia sarebbe rinunciare all’arsenale atomico, già oggi di discreta consistenza, per fare la fine di Saddam o di Gheddafi.

Idealmente, Kim Jong-un vorrebbe farsi riconoscere come potenza nucleare dagli Stati Uniti. Così garantendo la sopravvivenza del suo peculiarissimo regime. Per questo non ha mancato di far sapere ai visitatori americani di essere più che disponibile a trattare direttamente con il presidente americano. Trump stesso si era lasciato scappare in campagna elettorale che se utile sarebbe stato disposto a condividere un hamburger con il suo omologo di Pyongyang. Banchetto oggi difficilmente concepibile.

L’amministrazione di Washington prende ormai molto sul serio lo scenario della guerra atomica intorno alle due Coree. La pianificazione è avanzata e viene continuamente aggiornata. Washington potrebbe decidere di scatenare un attacco preventivo contro le basi nordcoreane prima che Pyongyang si doti dei vettori Icbm, per decapitare il regime e negargli la possibilità di un secondo colpo.

Quando tutti gli attori di una crisi ragionano in termini di prevenzione atomica, il rischio di guerra aumenta esponenzialmente. Né dobbiamo dimenticare che il Giappone è potenza nucleare di fatto, disponendo della tecnologia e del materiale fissile per costruirsi la bomba nel giro di settimane (alcuni pensano che l’abbia già), e che la Corea del Sud sta seriamente riflettendo sulla necessità di produrre un arsenale autonomo, non fidandosi troppo dell’ombrello Usa.

Sono passati oltre sessant’anni da quando il conflitto coreano (1950-53) è stato congelato lungo la cosiddetta “zona smilitarizzata” – in realtà l’area di massima densità militare al mondo – che corre attorno al 38° parallelo, linea divisoria fra le Coree. Lo status quo finora regge perché sembra convenire a tutte le potenze interessate. Alla Cina, che in caso di riunificazione della Corea si troverebbe le truppe Usa schierate a ridosso della propria frontiera, e dovrebbe gestire un flusso di milioni di rifugiati nordcoreani. Agli Stati Uniti, che non guardano con leggerezza alla prospettiva di trovarsi coinvolti in un conflitto atomico che ne rimetterebbe in gioco la funzione nello scacchiere asiatico-pacifico. Alla Russia, anch’essa esposta ai contraccolpi di uno scambio di bombe atomiche presso la sua frontiera estremo-orientale. Alla Corea del Sud e al Giappone, primi bersagli dell’offensiva nordcoreana. Per Seul, poi, gestire dopo una vittoria le macerie della Corea del Nord, oltre ai danni che questa può infliggerle, equivale quasi a una sconfitta.

Oltretutto, calcolare l’effettivo grado di minaccia proveniente da Pyongyang è molto arduo, data l’impermeabilità del regime e quindi la esiguità dei dati affidabili di cui dispongono le migliori intelligence mondiali, americana compresa. Quando le informazioni scarseggiano è facile inclinare al pessimismo, ragionando per prudenza sul peggiore scenario possibile. E operando di conseguenza.

Trump sembra convinto che la Cina possa fare molto di più per tenere a bada i suoi “alleati” nordcoreani. Probabilmente non è così. Già in passato Pechino ha mosso le sue leve – a cominciare da quelle economiche – per indurre alla ragione la cricca di Pyongyang. Con risultati molto modesti. Xi Jinping non intende comunque affamare i nordcoreani, perché se il regime collassasse sotto la pressione di una rivolta popolare la Cina si troverebbe con una Corea unita e filoamericana alla frontiera, non proprio un obiettivo appetibile.

Ad aggravare il clima di questa crisi in gestazione, il caos politico sudcoreano coronato dalle dimissioni della presidente Park Geun-hye, accusata di corruzione. Nel prossimo inverno si voterà per il successore, che probabilmente sarà un esponente della sinistra più o meno disponibile al negoziato con Pyongyang. E soprattutto assai critico circa l’urgenza di dotarsi di uno scudo antimissile (sistema Thaad) che gli americani, d’intesa con l’esecutivo interinale di Seul, stanno cercando di allestire in fretta e furia nel paese. Per proteggere la Corea del Sud dai missili nordcoreani, secondo Washington. Per difendere le locali basi americane, secondo molti sudcoreani. Come deterrente contro la Cina, aggiungono i cinesi.

Spesso le guerre scoppiano inattese. Nel caso coreano, mai conflitto sarebbe stato più preparato. Tutti sono consapevoli degli enormi rischi per la penisola coreana e per il mondo intero, considerando che l’eventualità del coinvolgimento cinese o anche russo non può escludersi. Se poi Trump dovesse davvero convincersi che occorre anticipare Kim Jong-un con un pre-emptive strike all’arma atomica – magari anche per rafforzare la sua incerta leadership domestica – o se il dittatore nordcoreano, sentendosi alle strette, scegliesse di giocare il tutto per tutto, quello che ancora oggi appare uno scenario catastrofico ma ipotetico potrebbe diventare tragica realtà. E non si dica che non ne sapevamo nulla.