A Berlino si ragiona su un piano B. per la moneta unica che comprende un gruppo ristretto di paesi ma esclude noi. Ecco per quali ragioni e quali potrebbero essere le conseguenze

Angela Merkel ed Emmanuel Macron
Il futuro prossimo dell’Europa si gioca soprattutto in Italia. Le grandi partite europee che si decidono da noi sono due: euro e migrazioni. Alle quali bisogna sommare le altre due crisi dalle quali l’Italia è toccata, e nelle quali ha comunque un ruolo: lo scontro Nato/Russia, con l’incendio ucraino tuttora non domato, e l’instabilità balcanica, destinata a riesplodere nel breve/medio termine. Infine, la quinta sfida: il terrorismo jihadista, in sé non una minaccia esistenziale, ma capace, cumulandosi alle altre dinamiche, di sfigurare il volto di ciò che rimane delle nostre istituzioni liberali e democratiche.

La centralità dell’Italia nelle crisi dell’euro e delle migrazioni incontrollate da sud deriva dal combinato disposto delle sue dimensioni economico/demografiche e della sua fragilità geopolitico-istituzionale. Cominciamo dalla “moneta unica”. Non è questione che interessi solo l’Eurozona o il resto della famiglia comunitaria, visto che la vita o la morte dell’euro hanno sostanziali riflessi sulla geopolitica e sull’economia globale. Se i mercati finanziari e le principali potenze tengono costantemente monitorati i conti pubblici nostrani, temendo una crisi finale del debito, è perché l’Italia è l’anello decisivo della catena formata dai paesi dell’Eurozona. La quale potrebbe certo sopravvivere, così come la conosciamo, al collasso definitivo della Grecia o di un altro paese minore, non alla bancarotta italiana.

Ad aggravare la diagnosi e ad accentuare quindi la nostra responsabilità, il timore dell’avvento al governo del Movimento 5 Stelle, percepito dai decisori politici e finanziari in Europa e nel mondo come la miccia destinata a generare l’esplosione dello spread e la distruzione della credibilità dello Stato italiano. Esaurita, a quanto pare, la scorta di tecnocrati con cui da Ciampi a Monti abbiamo tentato negli ultimi vent’anni di rassicurare mercati e cancellerie sulla tenuta del Bel Paese, resterebbe solo la soluzione di un’ammucchiata al centro concordata tra Renzi, Berlusconi e soci minori: un calmante, nell’immediato, che preluderebbe al probabile trionfo delle forze antisistema nel futuro prossimo.

Si capisce perché a Berlino si ragioni sul Piano B: che fare se il caso italiano diventasse disperato. La parola chiave è Kerneuropa (Euronucleo). Termine evocato per la prima volta dall’attuale ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, e dal suo collega di partito (Cdu) Karl Lamers, il 1° settembre 1994, in un documento che suggeriva di consentire a soli cinque paesi l’accesso all’euro: Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Ovvero quella che all’epoca era l’area stretta del marco, di fatto già moneta europea.

Oggi, specie dopo l’avvento di Emmanuel Macron all’Eliseo, l’Euronucleo potrebbe assumere contorni più ampi, sia in termini istituzionali che geopolitici. Profilarsi dunque come rilancio dell’integrazione politica attorno al perno tedesco, attorno al quale ruoterebbero, insieme alla Francia e al Benelux i paesi della catena del valore germanico, almeno quelli considerati da Berlino affini in termini di cultura fiscale, monetaria e istituzionale: Austria, Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Danimarca, Finlandia, fors’anche la “periferica” Spagna, con o senza Catalogna. Non certo l’Italia. A meno di non considerarne la spaccatura lungo la linea gotica, che separa dal Mezzogiorno il Settentrione relativamente ricco e largamente intrinseco alla macchina produttiva tedesca, quindi integrabile nell’Euronucleo. Così abbandonando il Centro-Sud alla sua ingovernabilità.

È questa la traduzione pratica dell’“Europa a due velocità”, slogan caro ad Angela Merkel dopo il trauma Brexit, che tanto eccita l’europeismo classico nostrano. Il quale s’illude di scorgervi la promessa di tenerci comunque dentro la “prima velocità”, aggregati all’Euronucleo. Non c’è dubbio che questa sarebbe la scelta della cancelliera, se l’Italia dimostrasse di potersi rimettere in carreggiata. Ma pochi a Berlino ne sono convinti.

Lo scenario peggiore per noi sarebbe una doppia secessione: dell’Italia dalla Kerneuropa e del nostro Sud dal nostro Nord, forse agganciato, come vagone secondario, al convoglio eurotedesco. I dati dell’ultimo decennio segnalano infatti che fra Mezzogiorno (Roma inclusa) e Settentrione si è scavato un burrone economico, sociale e culturale. Quasi avessimo a che fare con diverse etnie. La recente deriva della vicina Jugoslavia ci ammonisce a prendere sul serio ipotesi apparentemente assurde, che attendono solo un sisma geopolitico o qualche avventuroso imprenditore politico per materializzarsi.

Non per amor nostro, ma per proprio fondamentale interesse, l’America si oppone alla Kerneuropa. Vista da Washington, sarebbe la rinascita di un polo di potenza tedesco, probabilmente filorusso e fors’anche filocinese. Lo spettro contro cui gli Stati Uniti hanno combattuto e vinto due guerre mondiali e la guerra fredda. Impedire l’affermazione di una grande potenza eurasiatica è la priorità geopolitica a Washington - e a Londra - da oltre un secolo. Di qui, ad esempio, il sostegno alla politica monetaria di Mario Draghi, contro l’austerità à la Schäuble. E di qui anche lo scontro sul fronte commerciale - e non solo - fra Trump e Merkel, che ha acceso la tensione fra Stati Uniti e Germania oltre il livello di guardia. La diffidenza verso Berlino spinge forse non del tutto consapevolmente l’establishment americano ad annacquare il vino eurotedesco con l’acqua euromediterranea. In parole povere, l’Italia dentro il primo cerchio europeo fa comodo agli Stati Uniti perché indebolisce e preoccupa la Bundesrepublik.

L’altro macrofenomeno che rivela la centralità dell’Italia per il resto del continente è quello migratorio. Chiunque non sia obnubilato dall’ottimismo della volontà si rende conto di quanto profonde siano le radici dei flussi Nord-Sud. Formidabile dislivello economico, crisi ambientale dovuta al mutamento climatico, guerre e soprattutto disintegrazione delle labili istituzioni statuali – si pensi a Siria, Iraq, Afghanistan, Yemen, Somalia e soprattutto Libia, paesi che esistono sollo sulle pigre carte dei nostri atlanti – indicano che la fuga dalla giovane Africa (età mediana: 19,5 anni) verso la vecchia Europa (44,5) non può essere arrestata. Al massimo, deviata. Verso l’Italia.

Dopo che Merkel, d’intesa con Erdo?an, ha quasi completamente chiuso il rubinetto della via balcanica, che portava dal Levante in guerra milioni di profughi verso la Germania e il Nord Europa, e dopo che la Spagna, d’intesa con il Marocco, ha ridotto ai minimi termini il corridoio di Ceuta, l’80% dei migranti africani o asiatici passa per la Libia. E di qui, chi sopravvive giunge in Italia. La ragione è patente: la Libia non è più uno Stato retto da un dittatore con cui si veniva a patti perché tenesse in casa propria il grosso dell’emigrazione dall’Africa subsahariana all’Europa. Sicché Roma non ha più un riferimento sicuro con cui trattare lo scambio soldi/trattenimento dei migranti (in condizioni spesso subumane). Un conto è (vedi Spagna) poter contare su uno Stato efficiente come il Marocco, retto da un monarca legittimato in quanto erede di Maometto, o (vedi Germania) su un regime semidittatoriale, come quello turco, in grado di mantenere i patti – ossia di fare il lavoro sporco che siamo disposti a subappaltare a chiunque sia disponibile. Altra (vedi noi) è avere a che fare con centinaia di milizie e di clan, tutti più o meno interessati alla gestione dei traffici umani.

Per l’Italia, alla falla sul fronte meridionale corrisponde la diga su quello settentrionale. I nostri vicini europei - francesi, svizzeri, austriaci, sloveni, d’intesa con la Germania – hanno reso sempre più stretti i controlli di frontiera. E ci hanno costretto ad abbandonare la prassi piuttosto lasca con cui fino a poco fa gestivamo gli sbarchi, lasciando che i migranti attraversassero il nostro paese per raggiungere le mete preferite nel Nord Europa.

Da terra di passaggio siamo diventati obiettivo. Ne deriva l’effetto “pentola a pressione”. Perché questo paese non è attrezzato per integrare i migranti e l’arte di arrangiarsi ha i suoi limiti. Se dovessimo nel prossimo futuro fronteggiare un flusso annuo superiore alle duecentomila persone, di cui il 90 per cento costrette a restare in Italia, ordine pubblico e pace sociale sarebbero in questione. Ma attendersi che i nostri partner europei ci diano spontaneamente una mano – ossia accolgano una parte consistente dei profughi e dei migranti economici – è vano. Se ci riusciremo, sarà solo in seguito a una dura contrattazione, con minacce e ricatti reciproci.

Alla fine, solo un soprassalto di responsabilità e di coraggio ci salverà. In caso contrario non solo non ci salveremo noi, ma infliggeremo seri danni ai soci comunitari e contribuiremo ad affossare l’Unione Europea. Sul paese che per primo dovrà pagare il conto, nessun dubbio.