Cadono nel panico non i clintoniani, né le élite accademiche o il New York Times che lo ha sempre deriso e bastonato, ma i repubblicani doc e dop (Bibbia, doppiopetto e Yale), e anche i repubblicani “fica, golf e speculazioni edilizie” a lui vicini. Melania la moglie reagisce con un: «E ora? E i tè con le mie amiche?». Rimane scioccato Trump stesso che non aspirava a diventare presidente ma “prima vittima”, “primo martire” di Hillary. Aveva già la frase pronta: «Hillary mi ha rubato l’elezione».
Trump perdente avrebbe accontentato tutti. Se stesso per primo: sarebbe diventato l’uomo d’affari più noto al mondo (chi non apre le porte a un quasi presidente?), con un piano immediato: una catena di televisioni, dove stanno glamour soldi e potere. La miglior entratura per la tv è correre per la presidenza, negli Usa è un fatto.
Perdere per vincere è un terreno arato dai commedianti di Broadway fa notare Wolff. Cita en passant Mel Brooks in “Per favore non toccate le vecchiette”, film del 1967. Un paio di produttori sgangherati raccolgono soldi per una grande rivista. Se è un flop dichiari bancarotta, non paghi le tasse e ti tieni il malloppo. Mettono insieme il peggior show della terra che, proprio per questo, diventa un successo. E qui cominciano i guai.
Da buon narratore Wolff parte dal principio, ab ovo. Tutto inizia al Greenwich Village di New York, intorno a un tavolo, a due passi da Broadway, a casa di Roger Ailes capo della Fox. Puro Woody Allen in “Broadway Danny Rose” del 1984: come in quel film (una costante della commedia americana) alcuni amici cenano e parlano del protagonista della storia, che incuriosisce perché non appare subito. Lo definiscono i suoi difetti. E anche questa è una delle chiavi di lettura. Quasi mai nel libro, Trump ci viene descritto nei particolari, se è alto o grasso o magro. Sappiamo solo che è un po’ sovrappeso e che è fanatico di golf.

Ailes, l’anima del partito repubblicano, è stato cacciato dalla guida della Fox per uno scandalo sessuale. Steve Bannon è il suo contrario: non ha mezzi, da alcuni mesi dirige la campagna di Trump ed è un ex di qualsiasi cosa immaginabile nella vita di un uomo. Quando incontra Trump dirige Breibart News: il bollettino degli ultraconservatori di destra. Bannon è una contraddizione vivente: vorrebbe vivere nell’establishment e farlo saltare in aria, come quei personaggi arruffati incoerenti e artificiosi che si trovano nei romanzi di Richard Ford o in John Updike. Vive come un hippy tra pile di libri. Non dorme. Telefona. Si esprime con il realismo sporco di alcuni scrittori del sud, metti Harry Crews, che è un Bukowsky in peggio. Come lui, non si sbarba, beve. «Fatti una doccia», gli dice Trump.
Bannon è l’inventore del trumpismo prima di Trump. Per questo Trump lo ama. Non sopporta gli immigrati (che vogliono?, da dove vengono?), né la stampa. Disprezza Obama e le sue politiche di appeasement in politica estera. La frase di Trump «paesi di merda» riferita ad Haiti, come stile è farina del suo sacco. La sua ideologia è mai scendere a un compromesso: ti definisci dalla reazione dei tuoi nemici, colpire prima di essere colpiti (con l’Iran per esempio). Ha idee chiare e semplici: Gerusalemme agli israeliani, la Cina sa di nazismo, il globalismo fa male alla classe operaia (da qui la sua popolarità nei ceti medio bassi), l’America è divisa in due, noi e loro, che sono i democratici e i repubblicani soft, dice Bannon. Noi siamo l’Apocalisse. Il grado zero dell’american way of life. Noi siamo un nuovo ordine.
Trump, come Bannon, sogna ancora il decennio 1955-1965, guerra fredda e governi espressi dall’apparato militare industriale. Anche i suoi gusti femminili sanno di quegli anni: coscia in vista, capello lungo, donne fedeli e silenziose. Melania è la sua «Moglie trofeo», dice. Sua figlia Ivanka vuol diventare primo presidente donna della storia degli Stati Uniti e si dà da fare per le donne del terzo mondo: Bannon la insulta davanti al padre che reagisce con una scrollatina di spalle. Anche la mimica di Trump per esprimere un disappunto è un passo indietro di mezzo secolo: fa la “faccia da golf”, labbra serrate, occhi strizzati, spalle incassate, borbottio «che c’è di nuovo ora?» quando è sul green. Come negli sketch di Jerry Lewis.
Ma se Trump è “il Donald? Che ci vuoi fare…?”, perché allora gli danno retta? Per un assioma: impossibile che vincesse le elezioni, se le ha vinte vuol dire che ha qualità che ci sfuggono, ergo è dotato di potere carismatico. Dunque c’è da seguirlo. Lui stesso ci crede e comincia ad agire “in modo presidenziale”. Segue i propri uzzoli, sempre gli stessi e prevedibili anche in situazioni diverse: un discorso ai boy scout o agli agenti della Cia si somigliano perché si perdono in divagazioni senza senso (Wolff intinge la penna nel veleno e li riproduce). Decide senza consultare nessuno di respingere gli immigrati di fede islamica, e vuol dare inizio alla barriera col Messico: sono stupratori. I profughi siriani, giovanottoni in salute, forse sono in contatto con l’Isis. L’Onu è una organizzazione di fannulloni strapagati con le nostre tasse.
Davanti a questo, una parte dell’America cade nel terrore. Nel libro “Il caso pericoloso di Donald Trump”, appena uscito per St. Martin’s Press, psichiatri e psicoanalisti lo analizzano come un re impazzito per il potere. Ma scomodare Riccardo III, l’esempio portato, per giudicare Trump è sbagliare bersaglio mirando troppo in alto. Il buon re inglese, gobbo, in una scena superba del dramma omonimo sedusse Lady Anne, cui aveva ammazzato il marito, con tonnellate di charme. Per Trump le donne devi abbagliarle con ogni mezzo eppoi «agguantarle per la fica» sic et simpliciter. Ci stanno tutte.
Da come viene descritto nel libro più che all’eroe shakespeariano fa venire in mente Baffo Rosso Sam (Yosemite Sam), il cartoon della Warner Bros: pistolero dagli enormi baffi arancioni, irascibile e impulsivo, sempre pronto a estrarre la pistola, specie se qualcosa è troppo complicato o gli cade addosso all’improvviso. Gli accordi di Parigi sul clima? un po’ di riscaldamento terrestre fa bene, c’è chi è freddoloso. La Corea del Nord? ho il bottone nucleare più grande del suo. L’Afghanistan: non potremmo guadagnarci qualcosa come fa la Cina che gli vende di tutto? L’Iran: Obama si è fatto fregare. Con l’Arabia Saudita, dove viene ricevuto come un re, organizza una alleanza militare «contro il terrorismo», cioè contro i paesi nemici dell’Arabia. L’influenza dei russi nella mia elezione? «Fake news», storie inventate. Come succede a Baffo Rosso le porte dei saloon che Trump sbatte per spaventare tutti, gli rimbalzano quasi sempre addosso: è il presidente col peggior indice di gradimento della storia Usa. Trump è cultura pop.
E la Casa Bianca è descritta come la Corte dei Tudor ai tempi di Enrico VIII; intrighi, porte che sbattono, congiure sventate, ribelli puniti. È un flipper di ordini contraddittori. Non vuol sentir parlare di “medicare”, porta male, o di paesini siriani gassati da Assad: si annoia. Di notte vaga per la Casa Bianca e viene in mente Gloria Swanson in Viale del tramonto alla ricerca degli interruttori. Eppoi cambiamenti di alleanze e simpatie (dentro il Generale Flynn, fuori il generale Flynn), amori improvvisi e delusioni altrettanto veloci (col nuovo direttore dell’Fbi), cambiamenti di fronte senza giustificazione: la Cia è buona, la Cia è un gruppo di incapaci. Non vado a Londra, non mi piace la nuova ambasciata.
Emergono gruppi di influenza che rappresentano gruppi di potere: Ivanka e Jared Kushner (figlia e genero) spingono per una politica di moderata apertura verso l’establishment. Bannon e i suoi amici considerano dei cretini i famigliari di Trump: a uno dei figli, Donald jr, Bannon dà del traditore della patria.
Ma alla Casa Bianca, come tra i Tudor nel Cinquecento, cane mangia cane: nel finale del libro fuori anche l’inventore del trumpismo. Bannon come personaggio è l’unico in tutta questa storia ad avere un inizio, uno svolgimento e una fine, come nelle tragedie elisabettiane. O Falstaff in Shakespeare. Ne entra come un Rasputin e ne esce come un barbone. Bolso, deriso, disprezzato. E disoccupato…