Adiam è arrivata in Italia dall’Eritrea nel 1979. Poi è diventata chirurga pediatrica. Oggi lavora con Medici senza frontiere nei Paesi ad alta mortalità infantile e tra le vittime di Boko Haram

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Adiam Woldemicael ha 35 anni ed è una mia coetanea. È cresciuta nella mia stessa città (Bari), come me ha frequentato il liceo scientifico e per anni abbiamo vissuto a pochi isolati di distanza senza esserci mai incontrati. È molto sorpresa per il fatto che ci si interessi alla sua storia come se lei fosse la protagonista di una vicenda straordinaria e preferirebbe che ciò non avvenisse. Adiam è nata in Eritrea e si è trasferita in Italia, insieme alla sua famiglia, all’età di cinque anni. Qui si è laureata in medicina e si è specializzata in chirurgia pediatrica. Appena concluso il suo ciclo di studi ha cominciato a viaggiare («Sono a casa al massimo per due o tre mesi l’anno») per mettere le sue conoscenze a disposizione di chi ne ha più bisogno. Non ha considerato neanche per un istante di fare il medico in Italia perché questo le avrebbe impedito di realizzare ciò che per lei è da sempre sogno e allo stesso tempo progetto di vita: garantire il diritto alla salute nei posti dove questo elemento fondamentale del nostro sistema di sicurezza sociale è di fatto negato.

Alla base della sua scelta c’è la volontà di contrastare una stortura inaccettabile: patologie del tutto curabili, che nel nostro paese porterebbero alla guarigione nel 99 per cento dei casi, causano invece la morte del 90 per cento dei pazienti in quei tanti, troppi luoghi del mondo in cui manca l’assistenza medica di base. Davanti all’enormità della sfida che i medici come lei si trovano ad affrontare, ci si trova spesso nella situazione di dover convincere i propri interlocutori della sensatezza della scelta fatta: «Mi è capitato di sentirmi dire che ciò che facevo era fine a se stesso, che certi problemi sono troppo estesi per essere risolvibili. Ho risposto che sono cosciente del fatto che ci sono questioni politiche più grandi di me, ma ho 35 anni, non posso già arrendermi all’idea che non ci sia la possibilità di un miglioramento. Anche se il mio lavoro fosse una goccia nell’oceano, ha comunque il suo effetto. Un bambino salvato è un bambino salvato».
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La sua ultima missione in ordine di tempo si è svolta a Pulka, nell’estremo nordest della Nigeria, dove la ong Medici Senza Frontiere ha costruito un ospedale da zero (con circa 90 posti letto) nel 2014. Le ho chiesto come si curava la popolazione del luogo prima dell’intervento della Ong che nel 1999 ha ottenuto il Premio Nobel per la Pace e la sua risposta è stata: «Semplicemente non si curava». Oltre alle strutture, infatti, mancavano i medici e il personale specializzato.

Non conoscere le cause della malattia spesso porta a non conoscere nemmeno le cause della morte dei pazienti. Anche questo è un diritto negato: «Troppa gente muore senza che se ne conosca il motivo, perché mancano persino le diagnosi. È capitato anche ad alcuni componenti della mia famiglia», dice Adiam.
La sua giornata tipo in Nigeria era del tutto paragonabile a ciò che accade in un ospedale del nostro paese: interventi chirurgici, assistenza ai degenti, visite di controllo. I paralleli però smettevano di avere senso dopo le cinque del pomeriggio perché a quell’ora i medici, provenienti da ogni parte del mondo, erano costretti a lasciare la struttura. Pulka infatti è in una zona in cui da anni è in corso un’infinita lotta tra le milizie regolari nigeriane e l’organizzazione terroristica di Boko Haram.

Durante il 2016, uno degli anni più sanguinosi della guerra civile, l’intervento di Msf ha permesso a più di 20 mila bambini di essere ricoverati nei centri terapeutici nutrizionali; sono state effettuate oltre 290 mila visite ambulatoriali e 2700 visite di emergenza. Le équipe mediche hanno vaccinato circa 130 mila bambini contro il morbillo, 10 mila contro la polmonite e ne hanno trattati 18.700 contro la malaria.
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In situazioni simili la sfida medica ne porta con sé un’altra, altrettanto pressante: quella etica. Chi ha diritto a essere curato durante una guerra civile provocata da un’organizzazione terroristica? «Tutti. È chiaro che noi medici proviamo emozioni e che non è semplice trattare tutti allo stesso modo, ma è la cosa giusta da fare». Il Diritto Umano Internazionale prevede infatti l’accesso indipendente alle vittime a prescindere dalla loro storia personale. Non solo: come spesso accade quando si parla di etica, le soluzioni non sono mai estreme e binarie: «Abbiamo trattato pazienti che provenivano da villaggi in cui Boko Haram obbligava ad affiliarsi a loro all’istante per non essere uccisi. Ci trovavamo ad accogliere persone che in teoria facevano parte dei terroristi ma che in realtà erano scappati alla prima occasione utile, cercando rifugio proprio nel nostro ospedale. A loro, forse più che a ogni altro, bisognava garantire la maggior assistenza possibile, anche psicologica».

Questa storia forse porta con sé tanti difetti di percezione, perché Adiam è africana. Lei sta dedicando la sua vita e le sue energie per contrastare una profonda ingiustizia, ma non è la sola a farlo: «Sono un medico come tanti altri». Non vuole che l’attenzione che i media iniziano a riservarle sia figlia di una sorta di pregiudizio: «So che si parla di me per il colore della mia pelle», dice. Sarebbe facile raccontare la parabola della donna nata in Africa, cittadina italiana, tornata nel suo continente d’origine per chiudere il cerchio. Ma per lei non è così: nelle sue prossime missioni Adiam andrà in qualunque continente sia necessario garantire il diritto alle cure mediche. E aggiunge che le sue origini stanno diventando anche l’oggetto di un altro tipo di attenzione non richiesta: «Bari è la mia casa e la mia famiglia: qui ho gli amici, il mare, i miei genitori che vivono ancora qui». Non ha mai vissuto episodi di intolleranza, ma da un paio di anni «inizio a sentirmi osservata per strada. Quando entro in un negozio trovo un’accoglienza un po’ più titubante rispetto a prima, ma basta scambiare due chiacchiere e le persone tornano a fidarsi. Ma questo cambio di atteggiamento inizia a far paura».

In questi giorni di attesa prima di ripartire, la dottoressa Woldemicael dedica le sue giornate a incontri con operatori dell’accoglienza, associazioni e cittadini. A Lecce una signora, a margine di un incontro pubblico, le ha chiesto: «Ma quindi curate davvero le donne e i bambini?». Questa frase, che evidentemente non è solo un dubbio individuale, è la conseguenza di anni di totale rimozione di ciò che le Ong fanno quotidianamente, lontane dai riflettori. Anni di battaglie politiche sui “taxi del mare”, sulle caratteristiche di chi rischia la vita per raggiungere l’Europa, sulla contabilità (e la conseguente disumanizzazione) dei migranti stanno via via facendo dimenticare non solo il lavoro di persone come Adiam, ma anche l’esistenza delle ragioni del loro intervento. «Capisco che le persone siano così tanto prese dalle loro preoccupazioni e dai problemi di tutti i giorni, però sarebbe bello che ogni tanto si alzasse un po’ la prospettiva e che si iniziasse a guardare fuori, lì dove non c’è nessun diritto».
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Questo però, non vuol dire cedere alla retorica dell’aiutiamoli a casa loro. «È una frase che non sopporto, perché spesso è pronunciata da chi non ha un reale interesse a portare diritti e assistenza dove non ci sono, ma è il tentativo di tenere gli stranieri il più lontano possibile. È un approccio egoistico, che nasconde il fatto che non si ha davvero voglia di aiutare qualcuno». Questa impostazione, oltre a essere ipocrita, è sballata dal punto di vista logico e pratico, secondo Adiam: «Quanti italiani sono andati a vivere altrove negli scorsi decenni e quanta gente, ogni anno, lascia l’Italia ancora oggi? Le migrazioni ci sono sempre state, perché c’è sempre stato l’istinto alla sopravvivenza o la speranza di poter migliorare le proprie condizioni di vita».

La storia di Adiam va raccontata, nella speranza che un giorno non sia più una storia da raccontare.