"Io, schiava sessuale dell’Isis salverò la moglie del mio aguzzino da quel carcere americano"

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Badria ha 19 anni. Fu comprata quando ne aveva 14 da uno jihadista americano-marocchino che la violentava davanti alla moglie Samantha. Oggi vuole testimoniare a favore della donna: «È la mia seconda madre» (Foto di Alessio Mamo)

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Un paio di orecchini d’oro, leggeri, alle orecchie. Una collana ancor più sobria, sempre d’oro, al collo. Li sfiora delicatamente, accarezzando i lobi delle orecchie o rigirandosi tra le dita il ciondolo della collana. Nel frattempo, si racconta. Badria ha diciannove anni ed è sopravvissuta a quattro anni di schiavitù sessuale dell’Isis. Quattro anni di violenza e orrore a cui ha cercato invano di ribellarsi. Come lei, settemila yazide irachene sono state rapite e fatte schiave nel 2014 dal gruppo terroristico autoproclamatosi Califfato, “Stato Islamico dell’Iraq e della Siria”. L’Isis è stato sconfitto, militarmente, nei territori che per tre anni ha violentemente occupato. Ma della metà di queste bambine e giovani donne rapite ancora non si conosce il destino.

La collana che porta al collo è un regalo della sua mamma quando è tornata in Iraq da donna libera. La sua vera mamma, quella yazida. L’oro che Badria porta alle orecchie, invece, è l’oro del mercato di Raqqa, in Siria. La sua «seconda mamma, Sam» gliel’ha regalato durante uno dei lunghi giorni della sua schiavitù. La Sam di Badria è Samantha Sally, una cittadina americana, sposata a Moussa El Hassani, un americano di origine marocchina. Anche per Sam gli ultimi quattro anni sono stati un incubo. Ma non è ancora finita. Mentre Badria è tornata a casa in Sinjar, nord dell’Iraq, Sam si trova ora in prigione in attesa di processo in Indiana, negli Stati Uniti d’America. La libertà di Badria non è stata però solo frutto della fortuna. È stata proprio Sam ad aiutarla a scappare. E lei spera di ricambiare un giorno, di riabbracciarla. Potrebbe essere proprio lei l’artefice di questo destino.

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CINQUE ANNI FA
Pick-up, pullman, bandiere nere. Così l’Isis è entrato in Sinjar, stravolgendone il paesaggio per sempre. Badria viveva nel villaggio di Domiz, in mezzo al verde, con la sua famiglia. La vista del Monte Sinjar ha accompagnato ininterrottamente i suoi primi quindici anni di vita. Poi, quel giorno, quell’agosto 2014. Quello che tutti ricordano come il genocidio degli yazidi, il settantaquattresimo nella sua storia di persecuzioni. Gli yazidi formano una delle minoranze e delle religioni più antiche in Iraq, l’Antica Mesopotamia, la civiltà tra i due fiumi: il Tigri sull’odierna Mosul e l’Eufrate che attraversa oggi Raqqa. L’accusa di idolatria ha determinato le passate e recenti persecuzioni. Alla notizia dell’arrivo dei militanti, Badria, insieme alla sua famiglia, è scappata verso il monte.

Ma i miliziani li hanno catturati e portati indietro. Dei pullman li aspettavano, inizia la prima separazione: uomini da una parte, donne e bambini da un’altra. Poi verso Mosul: la prigione di Badush e la scuola dello smistamento delle donne. Le ragazze vengono comprate. Degli uomini non si avranno più notizie. Il fratello maggiore avrebbe oggi ventun anni. Anche lui, Ghari, è sparito. L’ultima volta che Badria l’ha visto dopo il rapimento è stato a Mosul, vestito come un combattente dell’Isis, fresco di addestramento militare. Di nascosto, riesce a darle una scheda del telefono con le sue foto: è l’ultima, l’unica cosa che conserva di lui. Lei e la sorella Inas vengono vendute come schiave sessuali: anche loro non si vedranno mai più. Solo la madre viene risparmiata e sebbene in prigione in mano all’Isis, resterà per tutti gli anni a seguire coi figli più piccoli, fino a uno scambio di prigionieri.
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Per Badria intanto è già iniziato l’orrore. «Se anche stessi un anno qua a raccontarti, non finirei mai. Non ci sono parole per descrivere la violenza che abbiamo vissuto», dice la giovane donna, scuotendo la testa. «Un giorno, nella prigione di Badush, una bimba di otto anni si è attaccata a me per la paura che la violentassero. Ed infatti l’hanno presa. È morta di emorragia». Badria vorrebbe fermarsi e respirare. Ma è più forte di lei. «Ho il dovere di raccontare». Dopo due anni venduta da un miliziano all’altro a Mosul, iniziano le operazioni dell’Esercito iracheno per liberare la città e la regione di Ninive dall’Isis. È l’ottobre 2016. Della piccola Badria, il suo aguzzino non se ne fa più niente. Deve andare a combattere, la vende: al mercato delle schiave. A Raqqa.

DESTINAZIONE RAQQA
Un amore felice, in Indiana. Ricordi spensierati d’America finiti nell’instante della frontiera. Turchia-Siria era la linea che avrebbe potuto separare per sempre Sam da sua figlia Sarah. «Puoi pure non venire con me, ma mi porto nostra figlia a Raqqa». Così le aveva detto Moussa, il marito, prima che attraversassero illegalmente il confine verso il Califfato. «Nessuno mi crede perché nessuno è stato messo nella condizione di dover scegliere», dichiara lei in un’intervista con la Cnn nell’aprile 2018, «restare in Turchia con mio figlio Matthew - figlio del primo matrimonio - e vedere andare via Moussa con nostra figlia Sarah. O andare con loro. Come possiamo entrare in Siria, potremo anche uscire, pensai». Sam sarebbe sì uscita lo scorso luglio con Matthew e Sarah - e altri due piccoli nati dalla violenza in Siria - ma dritta al fresco negli Stati Uniti. E là, con nemmeno uno dei suoi quattro figli.

Al mercato delle schiave di Raqqa, Moussa aveva comprato una ragazza bassina. I capelli neri, gli occhi piccoli, stretti dal dolore. È così che Badria è entrata in quella casa: terrorizzata. Aveva sentito dire che il suo nuovo aguzzino era uno sniper marocchino-americano. C’era una sorpresa però. «Dopo due anni schiava di Daesh non mi aspettavo di poter trovare un’alleata in casa». Era lei, Sam. «Quando Moussa voleva violentarmi, Sam cercava di impedirlo e strapparmi dalle sue manacce. “È peccato, è haram!” urlava al marito. Ma lui le rispondeva con le botte dicendo: non è peccato, è nella Legge di Dio».
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Se non Badria, Moussa prendeva Suad, l’altra ragazza yazida. «Nessuno può immaginare cosa significa vedere il proprio marito violentare una ragazza di 14 anni», testimonia Sam. «E dopo, queste ragazze venivano a piangere da me, le consolavo dicendo loro “it’s gonna be ok, andrà tutto bene”. Badria racconta lo stesso dettaglio: «Dopo la violenza, correvamo da Sam. Lei ci abbracciava, piangeva con noi». Nei due anni in Siria, Sam è stata ripetutamente abusata dal marito. Ha provato a scappare: per punizione è stata rinchiusa e violata dai suoi carcerieri, nonostante fosse incinta del terzo figlio. Nel frattempo, il piccolo Ayman, un altro bambino yazida nella stessa casa, appare col figlio di Sam, Matthew, in un video di propaganda dell’Isis. Il video fa il giro del mondo nell’estate del 2017: due bambini che maneggiano le armi, il più grande, con l’accento americano, minaccia di colpire l’Occidente: «La nostra battaglia non finirà con Mosul. Siamo solo all’inizio».

Sam è di nuovo incinta, del quarto figlio, la aspetta un parto cesareo. Moussa si vuole vendere una delle due ragazze, Badria o Suad. Sam glielo impedisce con tutte le sue forze, le poche rimaste: «Queste sono mie figlie e rimangono con me», racconta Badria, ripetendo le parole di Sam. «Il marito l’ha picchiata perfino dopo che era stata operata e stringeva un neonato. Ma per fortuna siamo rimaste con lei». Solo in assenza di Moussa, l’atmosfera cambiava: Badria e Suad erano libere e si prendevano cura dei neonati, il piccolo Ayman giocava coi figli di Sam. Intanto un altro anno era passato, ripresa Mosul, era la volta di Raqqa.

Ottobre 2017. Bombardamenti senza sosta. Moussa non si salva. Badria viene ferita al piede. Sam la porta in ospedale dicendo che è sua figlia. Fatica a camminare, ma sono salve: Sam, Badria, Suad e i piccoli Ayman, Matthew, Sarah e i due neonati. «Non c’è stato giorno felice nei quattro anni nelle mani di Daesh se non il giorno in cui è morto Moussa. Anche Sam si è liberata». Samantha dichiara: «Ho respirato. Ho pensato: comincia una nuova fase». Prima però una missione da compiere: far tornare a casa Ayman e le ragazze. «Ha pagato un contrabbandiere per metterci in salvo e ci siamo tutte consegnate ai curdi delle Ypg. Sam ha pianto senza sosta: non volevamo più separarci».

«È INNOCENTE»
Con la storia di Badria che mi vortica in testa, lascio il Sinjar, nel nord, verso Baghdad. Badria mi ha salutato con una domanda: «Dov’è Sam? La voglio aiutare». Primavera 2019. Sam è in prigione, separata dai quattro figli e io sento solo le parole di Badria: «è innocente». Decido di scrivere all’avvocato della difesa, Thomas Durkin: dall’Iraq a Chicago. Non mi risponderà mai, penso. È sabato. A Baghdad sono le quattro del pomeriggio. A Chicago le otto del mattino. Non passano neanche venti minuti. Si firma Tom, ma è uno degli avvocati più conosciuti negli States. Si occupa di casi interni di terrorismo dal post 11 settembre. Inizia la nostra corrispondenza. «Marta, posso passare il vostro messaggio a Samantha in prigione. Vorrei anche parlare con la ragazza. Potrebbe essere una testimone preziosa».
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Badria non riesce a credere di avere notizie di Sam dopo oltre un anno. Adesso tocca a lei. Sam è accusata di aver fornito materiale di supporto all’Isis e di aver pianificato il viaggio in Siria col marito. L’avvocato dice invece che soffre di stress post-traumatico e non dovrebbe stare in carcere. Badria ripensa a quel giorno in cui Sam tornava dal mercato. Svestitasi dal pesante velo nero che tutte indossavano a Raqqa, le era corsa incontro. «Questo è un regalo per te». Gli orecchini d’oro che ancora porta addosso. Un pensiero per lei, tra la tortura e la guerra.

«Quando ho visto l’ultima volta la mia mamma in Sinjar, ho pensato che non l’avrei rivista mai più. Grazie a Dio e grazie a Sam l’ho rivista», ricorda Badria con le lacrime agli occhi. «Quando ho salutato Sam in Siria, ho pensato che stavo per perdere una madre per la seconda volta». Badria è pronta a testimoniare. I dettagli del suo racconto coincidono con le dichiarazioni di Sam. Mentre il team investigativo delle Nazioni Unite raccoglie prove per indagare sui crimini dell’Isis, con la Premio Nobel per la Pace yazida Nadia Murad in testa alla battaglia per la giustizia, questo potrebbe essere il primo caso nel genocidio delle yazide in cui la parte offesa diventerebbe il teste chiave della difesa di una presunta foreign fighter. Che era solo fighter di umanità. «Chiedo a tutti i governi al mondo di punire i criminali dell’Isis. Ma Sam è innocente. Voglio vederla libera».

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