Ahmadreza Djalali, il ricercatore che gli ayatollah lasciano morire in cella
Il medico specializzato in emergenze e disastri ha lavorato in Italia e Svezia e voleva aiutare il suo Paese. Ma a Teheran lo hanno arrestato durante un convegno e condannato a morte. Con accuse-farsa
Le autorità iraniane, sedicenti rappresentanti della millenaria cultura persiana, stanno impedendo a un medico gravemente malato, Ahmadreza Djalali, di essere curato. Forse perché ritengono uno spreco curare un detenuto condannato all’impiccagione, la pena comminatagli un anno e mezzo fa sulla base di accuse prefabbricate. «O perché vogliono farlo morire di malattia prima di eseguire una sentenza che scatenerebbe inevitabilmente le proteste di molte cancellerie isolando ancora di più l’Iran», denuncia Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International, che definisce Djalali un ostaggio del regime iraniano.
L’unica volta in cui i magistrati della teocrazia islamica hanno permesso al dottor Ahmadreza Djalali il trasferimento dal famigerato carcere di Evin - dove è tenuto in isolamento dall’inizio della carcerazione, 38 mesi fa - all’ospedale più vicino è stato perché doveva essere operato urgentemente per un’ernia inguinale. Uno dei problemi di salute provocati con ogni probabilità dalle torture fisiche, oltre che psicologiche, subite.
Durante tutta la degenza le caviglie di Djalali sono state incatenate al letto. Questo trattamento umiliante ha convinto il dottore, una volta tornato dietro le sbarre, a chiedere di essere curato all’interno dell’infermeria carceraria. Ma la richiesta è stata respinta. La salute di Djalali sta peggiorando di giorno in giorno a causa di una diminuzione inarrestabile dei globuli bianchi che fa temere una leucemia, accelerata forse dal lungo sciopero della fame per ottenere una revisione del processo-farsa cui è stato sottoposto, negatagli, così come le cure. Prima del suo arresto avvenuto tre anni fa mentre si trovava nella capitale iraniana per un seminario, Djalali, 46 anni, godeva di ottima salute e svolgeva con successo le proprie ricerche a Stoccolma dove si era trasferito da anni con la moglie Vida Mehrannia, chimica di professione, e i due figli, la sedicenne Amitis e Ariyo di 7 anni.
In Svezia il ricercatore specializzato in medicina di emergenza e dei disastri era andato per ottenere il dottorato, dopo che la sua richiesta era stata accettata per il suo eccellente curriculum dal Karolinska institute, una delle più importanti università al mondo di medicina. Grazie alla legge che prevede l’assegnazione del soggiorno permanente agli stranieri che abbiano lavorato legalmente per almeno cinque anni nel paese scandinavo, la famiglia Djalali è di fatto diventata anche svedese e pertanto sospettata automaticamente dal paranoico ministero dell’Interno iraniano di essere al servizio delle intelligence dei paesi considerati ostili o nemici. E infatti il ricercatore è stato condannato per spionaggio.
Dopo avergli impedito di farsi rappresentare al processo dal legale da lui scelto per smontare l’accusa “di collaborare con un governo ostile” e in assenza dell’avvocato assegnatogli d’ufficio, Djalali è stato condannato a morte da un tribunale rivoluzionario, a Teheran, nell’ottobre 2017. La sentenza, confermata dalla Corte Suprema, tuttavia non è stata ancora eseguita. Uno stillicidio che sta minando la salute mentale dei suoi familiari. In una lettera aperta pubblicata il 9 dicembre 2018, 121 premi Nobel hanno chiesto al leader supremo dell’Iran Ali Khamenei che il ricercatore iraniano Ahmadreza Djalali, riceva «la migliore assistenza medica possibile», «sia trattato umanamente e in modo equo» e gli sia permesso «di tornare a casa da sua moglie e dai suoi figli e continuare il suo lavoro accademico a beneficio dell’umanità». Il ricercatore è stato accusato di fornire a Israele informazioni che sarebbero state usate per l’assassinio nel 2010 degli scienziati nucleari iraniani Ali-Mohammadi e Majid Shahriari. «Le accuse sul mio ruolo nel fornire informazioni sugli scienziati nucleari uccisi sono false e vili», ha scritto lo scienziato, «Le ho respinte con numerosi documenti che sono stati presentati alla corte».
La condanna a morte di Djalali è stata uno shock non solo per la moglie e la figlia - il piccolo Ariyo crede che il papà sia all’estero per lavoro - ma anche per i suoi colleghi, tra i quali i medici membri del centro sulla medicina dei disastri, il Crimedim dell’Università del Piemonte Orientale che ha sede a Novara. Ahmadreza Djalali prima di finire nella trappola fabbricata dagli ayatollah, aveva studiato e lavorato dal 2012 al 2015 anche nella cittadina piemontese nota a tutti gli studiosi di medicina dei disastri grazie all’autorevolezza conquistata sul campo dal Crimedim.
È stato proprio il suo coordinatore scientifico, Luca Ragazzoni, a lanciare due anni fa la prima petizione rivolta alle autorità iraniane per chiedere la scarcerazione del collega con il quale ha stretto anche un solido rapporto di amicizia. «Ahmad è una persona umile e determinata che si pone grandi obiettivi e lavora duramente per raggiungerli. Durante gli anni passati insieme ci ha sempre accomunato l’idea di voler far crescere il nostro centro di ricerca attraverso studi e progetti sempre più importanti ed ambiziosi con l’obiettivo di portare un reale beneficio a tutte le persone colpite da disastri ed emergenze umanitarie, per salvare più vite umane possibili, per alleviare le loro sofferenze», dice il medico novarese.
Ragazzoni condivide le preoccupazioni dei colleghi svedesi, dei familiari, di Amnesty international, della Federazione italiana Diritti umani per la sorte del ricercatore iraniano che avrebbe voluto in futuro rientrare nel suo paese d’origine dove i terremoti purtroppo sono frequenti e devastanti ma mancano centri avanzati per curare al meglio i feriti. «Sono sempre rimasto colpito dalla sua estrema generosità, dalla sua capacità di sacrificio per aiutare i colleghi in difficoltà, dai suoi modi sempre gentili e dalla sua integrità d’animo. Testardo e risoluto, Ahmad ha sempre rappresentato un valore aggiunto al nostro gruppo, la sua personalità ci ha fatto fare un salto di qualità a livello internazionale. Tutte queste sue innegabili qualità hanno trasformato il nostro rapporto lavorativo in un’amicizia sincera», conclude Ragazzoni sottolineando che l’amico gli manca molto.
La moglie di Djalali, con i rappresentanti di Amnesty e il ricercatore dell’Università orientale del Piemonte, la settimana scorsa è stata ricevuta dal presidente della Camera Roberto Fico e dalla senatrice a vita, la scienziata Elena Cattaneo che dall’arresto di Djalali si è sempre prodigata per la sua liberazione. «Per me resta pienamente attuale quanto scritto assieme ai senatori Manconi e Ferrara nell’interpellanza presentata a novembre 2017, poco dopo aver appreso che le autorità iraniane avevano deciso di comminare la pena capitale ad Ahmadreza Djalali», ribadisce la senatrice. Secondo Cattaneo, la condanna a morte di un ricercatore, di chi non coltiva altro che la conoscenza, deve essere vissuta dalla comunità internazionale come un attacco portato al cuore del nostro modello di convivenza. «Un ricercatore recluso e in predicato d’esecuzione è un fatto inaudito che deve essere vissuto dalla comunità degli Stati liberi al pari di un’aggressione al corpo diplomatico o a un soldato in servizio di peacekeeping», denuncia.
Il rapporto “Free to think” del network Scholars at Risk, che monitora ogni anno la situazione della libertà di ricerca nel mondo, riferisce di 294 casi di attacchi verificati contro la libertà accademica in 47 Paesi dal primo settembre 2017 a fine agosto 2018.
«Il caso di Djalali ha molte analogie con quello di Giulio Regeni, uno studioso che ha continuato fino all’ultimo a rivendicare lo spazio incomprimibile della sua libertà di ricerca. Mentre, però, siamo arrivati troppo tardi a conoscere la vicenda di Giulio, per salvare Ahmadreza abbiamo ancora un po’ di tempo, benché, purtroppo, sempre meno. L’impegno delle Ong che hanno permesso di tenere alta l’attenzione sul caso dev’essere di stimolo per la politica, come pure iniziative come quella dell’Ordine dei Medici di Novara che, in occasione della presenza di Vida in Italia, resa possibile proprio da Amnesty, ha chiesto al sindaco della città di concedere la cittadinanza onoraria ad Ahmadreza», conclude Cattaneo.
Purtroppo la grande ricchezza intellettuale dell’Iran è inversamente proporzionale alla ipocrisia e brutalità degli ayatollah che lo governano dal 1979 in nome di Allah mandando a morte i tanti eroinomani disoccupati e ladri di polli senza il denaro sufficiente per pagarsi i legali vicini al regime, mentre gli avvocati con la schiena dritta se la vedono ridurre spesso a una poltiglia sanguinante a causa delle decine e decine di frustate inferte di prassi assieme a molti anni di carcere duro. Di recente è salita agli onori della cronaca la tragica storia dell’avvocata Nasrin Sotoudeh, già vincitrice del premio Sakharov, paladina dei diritti umani, da anni in prima fila per difendere i diritti civili e per l’emancipazione delle donne, condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate, condanna poi ridotta a 12 anni che si aggiungono ai 5 di una precedente sentenza. Anche Nasrin è detenuta come Ahmadreza nel carcere alle porte di Teheran, noto per le atroci condizioni in cui versano i detenuti.
«Abbiamo chiesto ai rappresentanti delle istituzioni italiane di aiutarci a salvare mio marito, di farci uscire da questo incubo. Ci eravamo già rivolti all’Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Unione Europea, Federica Mogherini, che ci aveva espresso solidarietà e sostegno, ma la pena di morte purtroppo è stata confermata», spiega Vida.Chi si occupa delle violazioni dei diritti umani perpetrate dagli ayatollah sa che la detenzione e la condanna a morte di cittadini iraniani residenti all’estero sono usati molto spesso come armi di ricatto per indurli a commettere il reato di spionaggio - sì proprio quello per cui si trovano ingiustamente in carcere in attesa di infilare la testa nel cappio del boia - ma ai danni del paese ospitante. La moglie di Ahmadreza sospetta che nel corso del primo anno di detenzione, periodo in cui le venne consigliato dai funzionari iraniani di non rendere pubblica la vicenda per non danneggiare involontariamente il marito, i servizi segreti della teocrazia abbiano tentato di convincere il ricercatore a diventare una loro spia in Europa.
«Sogno il giorno in cui mi sveglierò con la notizia che sei stato rilasciato e che tutta la sofferenza, tua e nostra, sarà finalmente finita. Tutto quello che hai fatto è aiutare le persone in giro per il mondo… Ho paura che un giorno dovremo dire ad Ariyo perché non sei più tornato. Vuole che tu torni, dice di voler andare fino in fondo all’Iran per trovarti, ha bisogno di te. Ha bisogno di te, di tornare a giocare insieme, di fare il ninja e tutti i giorni piange per te mentre tu, solo, stai seduto nella tua cella... senza mangiare e bere nel tentativo di far sentire la tua voce contro tutta questa ingiustizia. Caro papà non potrò mai rinunciare a credere che un giorno tornerai. Ti amerò sempre. Non mollare», gli ha scritto la figlia Amitis nel giorno del suo quattordicesimo compleanno, quando ancora non era stato condannato a morte. Oggi questa ragazzina cresciuta anzitempo ne ha 16 e nel suo italiano perfetto, imparato a Novara, dice: «Spero che quella che considero una delle mie case, l’Italia, ci aiuti a far uscire vivo dal carcere il mio amato papà».