Le Primavere arabe hanno fallito, ma hanno gettato un seme
I moti di protesta del 2010 hanno portato a quattro stati falliti, migliaia di vittime e al Medio Oriente destabilizzato. Eppure oggi in Algeria a Sudan l'eredità di quella stagione sta cambiando qualcosa
Le primavere arabe esistono o no? Sono un bene o un pericolo? La risposta non è immediata. Tra la fine del 2010 e inizio 2011 le manifestazioni pacifiche di Tunisi e del Cairo avevano lasciato sperare per il meglio. Quella piazza Tahrir piena di giovani mostrava la gioventù araba sotto una nuova luce: non solo violenza e terrorismo ma impegno per la libertà e la democrazia. Il mescolarsi assieme di tendenze religiose e laiche era un bel messaggio.
Sono bastati pochi mesi per disilludere tanti: la vittoria dei Fratelli Musulmani, la loro incapacità di governo e alla fine il colpo di Stato, davano l’idea di una riedizione del “decennio nero” algerino, costato negli anni Novanta circa 200 mila morti. Ma soprattutto i lunghi massacri siriano e yemenita ancora in corso stanno lì come calderoni accesi a rammentarci il fallimento di quella breve stagione. Isis, jihadismo e interi popoli divorati da una guerra senza fine, che si allunga come uno spettro su un avvenire incerto. Dobbiamo dircelo: il risultato delle Primavere è di quattro Stati falliti (Siria, Yemen, Libia e in buona sostanza anche l’Iraq), tante vittime, grandi devastazioni e poco futuro. Il Medio Oriente e il mondo arabo appaiono come un luogo incerto, minaccioso, una fornace da cui possono uscire solo calamità.
Ma poi, come sempre, la storia riserva delle sorprese, fa dei salti seguendo correnti profonde che non si vedono a occhio nudo e che la geopolitica non cattura. Algeri e Khartoum, due luoghi lontani e molto diversi fra loro, tacitamente ripropongono un’altra visione. In entrambe le città da mesi si manifesta in massa e pacificamente, chiedendo il cambio: basta regimi militari e dittature, è il tempo della libertà e della democrazia. È già accaduto ma questa volta è diverso dal passato: non c’è nessuna tentazione violenta e, soprattutto, non è coinvolto nessun partito, religioso, militare o laico che sia. La protesta si rivolge a tutti i protagonisti delle crisi precedenti: governo, esercito, movimenti islamisti, oppositori laici.
I manifestanti non si fidano di nessuno. I cortei sono imponenti e originali: alla fine gli stessi manifestanti puliscono le strade, tutti tornano a casa in pace, non c’è nessun estremista che si infiltri, è come un blocco unico in cui la parola si è liberata ma senza violenza. Nemmeno i regimi sanno come reagire: nessun pretesto viene loro dato per reprimere trincerandosi dietro il solito discorso della sicurezza nazionale. Ad Algeri ciò ha portato alla fine del clan Bouteflika (al potere da 20 anni) ma alla piazza non basta. Anche ai generali si chiede di andar via: non viene accettata nessuna “conversione” e nessun cambio di casacca. L’esercito tentenna, prende tempo, ma la piazza resta lì, ferma e pacata: ogni venerdì ad Algeri la vita si ferma e la gente scende in massa per strada. I manifestanti non indicano “uomini nuovi”, non invocano partiti e nemmeno oppositori storici.
Attendono solo che parta un processo costituente in cui i cittadini siano coinvolti: una ripartenza generale e assoluta. Anche a Khartoum lo scenario è simile: malgrado sia un paese molto più povero dalla storia molto diversa, la gente scende per strada e chiede la fine del regime “jaballah”, cioè della minoranza che ha governato fino ad ora. Malgrado la caduta di Bachir, nessun compromesso riesce a convincere i sudanesi, nessun riciclaggio da parte della classe politica è ammesso.
Ovviamente gli esperti sorridono: le rivoluzioni senza leader non funzionano. Un po’ come da noi in Italia e in Europa: se vuoi esprimere una nuova iniziativa politica la prima domanda è sempre “chi è il leader?”. Qui si avverte una vera e propria miopia: è come se queste singolari piazze arabe ci dicessero a modo loro senza il totale rinnovamento delle ragioni della convivenza nazionale nessuna riforma potrà essere adeguata.
In altre parole: se non sono chiare le ragioni del Noi, nessun Io potrà salvarci. Questo messaggio vale anche per l’Europa. Malgrado la resilienza ostinata di quelle piazze, non possiamo dire come finiranno le vicende algerina e sudanese. Il fiume carsico dell’anelito di libertà farà emergere anche nel mondo arabo una forma di democrazia? Le resistenze sono forti: quanto tempo e quanto sangue ci vorranno?
Malgrado tutto l’intuizione dei manifestanti di Algeri e di Khartoum è proprio questa: si cambi pacificamente realizzando una nuova coesione nazionale. Chiedono alle loro élite di aprire il campo politico e basta. Non fanno calcoli ma sono animati da una forma di fiducia molto rara di questi tempi, quasi ingenua. Ma alla fin fine tanti calcoli, congetture, equilibrismi o bilanciamenti geopolitici non hanno portato a nulla finora. Tanto vale tentare.