Mao, lavoro, denaro: la trinità che racchiude l’impero cinese vista dal cortile di nonno Zhang
Dalle Guardie Rosse al capitalismo. Nell’epopea di una famiglia, la lunga trasformazione di questi anni che ha raggiunto anche i villaggi dello Guangxi, stato rurale dove passato e futuro convivono
Al centro della vastità cementificata e straniante di piazza Tienanmen, chiusa dalle architetture aliene e staliniane del Grande palazzo del Popolo e del Museo della Rivoluzione (e strabordante di turisti cinesi che brandiscono bandierine rosse della Repubblica Popolare e sgomitano per un selfie insieme al gigantesco volto di colui che ha distrutto il loro passato, la loro storia - Mao Tsetung, che continua a guardarli dalle mura fortificate della Città Proibita e del suo mausoleo), mi rendo conto di essere un minuscolo puntino e ho la percezione del fatto che probabilmente i cinesi sono i più grandi illusionisti del mondo. Ricordo le foto di quella stessa piazza (non soltanto i filmati dell’89, il massacro degli studenti che chiedevano libertà di stampa), durante la Rivoluzione culturale, addobbata con le gigantesche effigi di Marx, Engels, Lenin e Stalin. Che cosa c’entravano quei quattro signori occidentali con la cultura millenaria di questo popolo pratico e vociante in cui l’unica legge che sembra valere è quella del più forte? Per eludere la domanda Mao, dal 1949 al ’76, scientificamente distrusse ogni resto del passato. E per eludere i conti con Mao, il successore Deng Xiaoping e il partito unico fecero credere al popolo, che accettò tranquillamente, che la responsabilità fosse della malvagia Banda dei Quattro (che non è un fumetto della Marvel ma pura realtà cinese) e non di Mao. Probabilmente è dal 1° ottobre del 1949 che la Cina proietta all’interno e all’esterno una variopinta illusione: non è quello che sembra, né per i cinesi né per il mondo; e non sembra quello che è, perché quello che è, da un lato è la rincorsa perenne di una identità e dall’altro semplice affermazione economica.
Mi trovo in Cina per la traduzione di un mio romanzo, l’editore cinese mi ha organizzato incontri con la stampa per il lancio del libro. Li affronto con rispetto ma non senza diffidenza. Sono giorni che nell’aeroporto di Hong Kong si combatte una violenta battaglia tra manifestanti e polizia, e la stampa cinese (tra cui il “China Daily”, che distribuivano in aereo agli stranieri) è terribilmente falsa, faziosa e denigratoria contro i giovani di Hong Kong che nel 2047 torneranno sotto il controllo cinese.
Finisco le interviste e parto per il Guangxi, uno Stato rurale del sud del paese, per cercare di comprendere meglio lo spirito di un popolo che proprio nella sua classe contadina ha vissuto le più forti contraddizioni negli anni della Rivoluzione. È questa, che mi interessa, e come da lì si sia poi arrivati alla Cina di oggi. E in effetti è a Jiuxian, un piccolo villaggio di case di pietra nel panorama onirico delle montagne carsiche di questa regione, che incontro John Liang e Cui, la sua promessa sposa, mentre si fanno fotografare in vista delle nozze. John, come vuole che lo chiami, studia ingegneria a Shanghai e parla un inglese perfetto. Potrebbe essere di Singapore o malesiano, da quanto mi sembra affrancato dal passato del suo popolo. Mi porta a conoscere la sua famiglia, nella bassa casa tradizionale dei nonni. Beviamo tè preparato da sua nonna Li, sulla parete all’ingresso c’è un grande quadro col volto di Mao. Passiamo insieme qualche giorno. La madre, Mei Nushi, ha aperto un hotel non lontano da lì, per i turisti cinesi, e non parla una parola di inglese. Ma è il nonno, Zhang Xiansheng, ora raccoglitore di riso e in gioventù soldato delle Guardie Rosse che, grazie alla presenza del nipote e forse alla malinconia della vecchiaia, mi racconta del suo passato. Fu spedito a Pechino per cancellare la memoria storica della Cina.
Degli ottomila edifici storici che esistevano nel 1958 ne furono risparmiati settantotto. Come i Khmer rossi fecero in Cambogia, lasciando soltanto Angkor Wat, nella capitale fu risparmiata solo la Città Proibita, l’antica residenza degli imperatori, mantenuta proprio per perpetuare l’illusione del rispetto per il passato. Il nonno di John distrusse le antiche mura che circondavano la città, rase al suolo le antiche porte, i pai-lo (gli archi), i templi (la politica del ji, si chiamava, dello “spingere via”: i templi venivano trasformati in fabbriche o rasi al suolo per edificare casermoni fatiscenti che accoglievano migliaia di famiglie di contadini); ordinò l’occupazione delle tradizionali siheyuan, le basse case dei borghesi con i cortili interni (ora quasi tutte distrutte) lungo gli hutung, i vicoli del centro; distrusse i bagni privati nelle abitazioni (troppo borghesi) per sostituirli con latrine di quartiere. Contribuì a cambiare l’orientamento nord-sud della città con il più politico asse est-ovest. Cementificò piazze (la Tienanmen su tutte), per dare un punto di ritrovo a un popolo che non aveva mai conosciuto il diritto di riunirsi in un luogo pubblico. Ogni famiglia fu costretta a fondere ciò che possedeva di metallo, statue, vasi antichi, per farne pentole e tegami. Il “Grande balzo in avanti”, si chiamava. Era il principio pratico del socialismo, che è rimasto inalterato dentro questo popolo votato al produrre, che dal 1980 si è aperto al mercato libero. «Per la rivoluzione eravamo pronti a morire», mi dice il vecchio Zhang, «ma ora si potrebbe morire per una Bmw?».
Guarda il nipote e la giovane compagna. «Certo!», risponde John ridendo. Ma nei suoi occhi io so che è davvero così, perché tutto qui è un grande, immenso, gioco caleidoscopico di rimandi e di illusioni. Il Paese è stato svuotato dei simboli del passato ma non del tutto, o anzi per niente, solo come illusione: siamo infatti seduti in una stanza e sorvegliati dallo sguardo di Mao. Ovunque sulle facciate degli edifici si vedono falce e martello. Ma questo convive pacificamente con i simboli opposti, questi sì esibiti, anzi ostentati: i grattacieli avveniristici, le luci abbaglianti, le insegne fosforescenti, le masse festose pronte al consumo. Il giovane John, seduto a terra al mio fianco, ne è l’incarnazione.
Come possono coesistere pacificamente queste due simbologie altrettanto dirompenti? Da un lato, credo, possono proprio perché su ogni cosa, in Cina, è impresso il sigillo del gigantesco mausoleo di marmo e granito che si erge al centro della Piazza Celeste: lì dove è avvolto e sepolto per sempre il corpo di Mao, il liberatore, il rivoluzionario. Possono, da un lato, proprio perché la Cina non ha mai fatto i conti col maoismo e ha addossato tutte le colpe pubblicamente riconosciute (poche) alla fantomatica Banda dei Quattro: Mao rimane dunque per i cinesi una sorta di divinità, ciò che tutto ammette e giustifica, contraddizioni incluse. Ma possono coesistere, e più sostanzialmente, proprio perché in Cina ogni simbolo è precisamente un’illusione a cui i cinesi - abituati a secoli di capricci degli Imperatori e dei quadri comunisti - fingono di credere, pur di produrre. Questa è tutta la sostanza in Cina, per un popolo istintivamente pratico, anche perché numerosissimo (un miliardo e mezzo di persone abituate a dover sopravvivere; quasi una persona su quattro al mondo è cinese). Così, in questo soggiorno, capisco questo: per i cinesi, oggi, conta solo il fare. Il mettere in pratica, il mettere a frutto. Adoperarsi, lavorare, produrre, ognuno seguendo solo le direttive di se stesso, la propria impresa personale.
Sopra ci puoi mettere tutti i simboli che vuoi, buoni per la comunicazione col mondo esterno. Dentro, tutti sanno che più forti sono i simboli, più alti oggi i grattacieli e più spettacolare la vista dal Bund di Shanghai, più ognuno potrà continuare indisturbato la corsa privata verso la realizzazione materiale - economica - personale. I simboli in Cina sono l’illusione gettata negli occhi dell’Occidente per produrre indefessamente nel più assoluto silenzio. «Mao ci ha liberato, Deng ci ha fatto ricchi», è lo slogan scolorito che ha resistito sui muri della casa di fianco a quella di Zhang Xiansheng e di sua moglie Li. È proprio Li, questa dolce anziana raccoglitrice di riso che mi racconta che Mao rappresentava i contadini radunati a cerchio dopo il lavoro a leggere e commentare l’editoriale del “Quotidiano del Popolo” e Deng Xiaoping invece li ritraeva nella stessa posa, ma accanto a un’automobile giapponese. False, entrambe le immagini, come ogni simbolo per metà lo è. Ma ottime, e da mantenere entrambe, pur di liberarsi da ogni vincolo esterno e poter essere un puro, e semplice, individuo atomico dedito all’accumulo. E infatti questo paese dalle contraddizioni folli, questo regime socialista che è il luogo più votato al capitalismo spinto che abbia mai visto, questo paese che ha la più alta crescita economica al mondo e che tiene il mondo intero in una mano - comprando il debito pubblico di quasi tutti gli altri paesi, assorbendo (anche per questo) indisturbato una quantità enorme di imprese e attività nel mondo occidentale, aprendo ogni tipo di nuova impresa commerciale (accade ogni giorno in ogni nostra città), lavorando in regime di quasi totale monopolio nelle grandi opere africane, continente di cui si è già assicurata il controllo, con enorme lungimiranza - questo paese è la perfetta concretizzazione della previsione di Barthes, il posto in cui Dio è diventato il denaro. Ma per davvero, avendo Mao vietato ogni religione.
La Cina è un paese senza segni del tempo. Per questo più di tre persone su quattro si dichiarano atee (in linea col partito unico), e non c’è indizio della minima spiritualità, a parte qualche anziano che all’alba fa ancora Tai chi davanti casa o in un parco silenzioso (l’esatto contrario di ciò che accade in ogni altro paese asiatico, dove religioni e spiritualità sono fondamentali, che sia buddismo, induismo o islam o cristianesimo). In Cina, lo leggo negli occhi di Mei Nushi e del paffuto figlio John, ogni persona professa la medesima fede, saldissima: l’accumulo del denaro, che equivale alla fuoriuscita dal deprimente comunismo fatto di disperazione e di fine delle illusioni in un mondo più equo. In Cina John Liang e la futura moglie Cui stanno vivendo il loro sogno personale di fuoriuscita (segreta ma legittimata) dal comunismo. John mi dice che quando sarà ingegnere andrà a specializzarsi a New York, e poi tornerà per contribuire a far grande la Cina. E io sono certo che lo farà, e che la sua sarà un’esistenza di successi, e forse felice (anche se non sono sicuro che in Cina la felicità sia già - o ancora - contemplata, o interessi a qualcuno). Perché il partito comunista lascerà, come ha sempre fatto, paternamente e ipocritamente che ciò accada. Ciò che conta è la materialità delle banconote, per la ricostruzione degli antichi fasti del Grande Impero. È a questo che la Cina punta.
Del resto “Cina” significa “regno centrale”, “centro del mondo”. Cui, John e sua madre Mei, sono volontari mattoni della meravigliosa costruzione di un sogno collettivo e della creazione di una classe media (credo che sia ancora presto perché si possa autodefinire “borghese” ad alta voce) ricca, colta e soprattutto ambiziosa e coraggiosa. Per tutte queste ragioni, e per il fatto di essere rimasta saggiamente neutrale in fatto di politica estera (il presidente Xi Jimping si guarda bene dal prendere posizioni sui rapporti Usa-Russia, sull’Iran, sul ruolo dell’Europa, per esempio), la Cina probabilmente sempre di più comanderà il mondo. Il Grande Impero si sta prendendo il resto del pianeta in silenzio: commercialmente. Ora sta lavorando internamente alla creazione e coltivazione di una saldissima classe dirigente e media. John sorseggia il suo tè e mi sorride. Il giorno in cui il Regno di Mezzo deciderà di alzare la voce sarà la consacrazione e l’inizio dei problemi, per la Cina e per gli altri paesi.