Il presidente francese imita l'Italia, ma ha perso tempo. Ormai l'Alsazia ha un tasso di contagi simile alla Lombardia. E la lotta contro l'epidemia ha un limite preciso da non superare: 12 mila, il numero dei posti in terapia intensiva

Coronavirus, la corsa in ritardo di Macron e della Francia

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È la sera del 16 marzo quando Emmanuel Macron appare a tutto schermo collegato dall’Eliseo e annuncia «siamo in guerra, il nemico è tra noi». Lo ripete più vote. Dopo una lunga prova di schizofrenia arriva la chiusura definitiva della Francia, frontiere comprese. «Era ora, ma temo sia troppo tardi», urla sconsolato…. «Era ora, ma temo sia troppo tardi», urla sconsolato Jan Gonthier. Vive faccia a faccia con il virus ed è stato costretto a guardare inerme il contagio diffondersi. Abita a Crépy-en-Valois, 15 mila anime a mezz’ora da Parigi, il primo focolaio dell’epidemia Oltralpe. «La frase che ho sentito ripetere più spesso è stata “oh, ça va!”. Ma non andava bene per niente. Le persone hanno continuato a la loro vita, come se non stesse accadendo nulla».

Già: il Covid-19 aveva cominciato a colpire. I provvedimenti soft e le dichiarazioni contraddittorie gli hanno permesso di circolare liberamente. Adesso il numero dei malati e delle vittime aumenta, inarrestabile. «È insopportabile che si sia minimizzata così a lungo la gravità della situazione. Andare a votare per il primo turno delle amministrative nel mezzo di un’epidemia è stata una follia. Abbiamo solo una speranza: fare come l’Italia», tuona Jean-Philippe Mazzucotelli primario all’ospedale di Strasburgo che da giorni lavora senza sosta tentando di arginare il morbo.

È il 24 gennaio quando la Francia scopre il coronavirus in casa, ma non viene presa alcuna misura nonostante a metà febbraio proprio qui ci sia la prima vittima d’Europa, un turista cinese di ottant’anni. La minaccia pare lontana. Quando Codogno e Vo’ diventano zone rosse in Italia, il ministro della Salute francese Olivier Véran si limita ad annunciare che «l’epidemia è alle porte». Il giorno dopo a Crepy-en-Valois muore un professore francese. Ma l’unica parola d’ordine è tranquillizzare. Macron va a teatro con la moglie Brigitte per dare l’esempio a non disertare la vita culturale, il parco di Disneyland continua ad accogliere visitatori nonostante ci siano casi di contagio tra il personale, gli stadi sono pieni per il campionato e si gioca anche la Champions League.

I focolai sono almeno sei, ma niente zone rosse, solo una generica raccomandazione all’autoisolamento e l’invito a ridurre la socialità. Il governo vieta solo le manifestazioni con più di cinquemila persone (un’enormità), mentre la ricerca della normalità sconfina nell’incoscienza: «Pufferemo contro il virus», gridano in 3.500 mascherati di blu con l’obiettivo di battere il Guinness dei raduni di puffi.

Occorre arrivare a 600 casi e nove morti, il 6 di marzo, perché Macron si appelli a un generico “buon senso”. Tenta la via mediana, la formula centrista per mettere tutti d’accordo e dispensa le linee guida: «Niente strette di mano, tossite nel gomito, chiamate il numero d’emergenza in caso di sintomi». Meno di due giorni e i contagiati sono già più di 1000, dopo una settimana di “buon senso” si superano i 3.500 casi con 79 morti. Solo allora ammette davanti a 25 milioni di telespettatori: «È la più grave crisi sanitaria del secolo». Invita le persone sopra i 70 anni e immunodepresse a rimanere a casa, interrompe le lezioni ma gli insegnanti devono comunque riunirsi. Del resto poco prima il ministro dell’istruzione aveva assicurato «le scuole non chiuderanno, non imiteremo l’Italia».

I lavoratori del Louvre hanno paura e scioperano. E così vengono sbarrati tutti i monumenti, proibendo i raduni con più di 100 partecipanti, ma si autorizza la marcia dei Gilet Jaunes e soprattutto le elezioni municipali in 36mila comuni, Parigi compresa. Surreale. Tutto chiuso, ma urne aperte avvertendo i votanti: «portate una penna da casa, tenete il metro di distanza, lavatevi le mani prima e dopo aver messo la scheda nell’urna». Vince l’astensione e il secondo turno svanisce. La realtà si impone con il bollettino dei malati. Il premier Edouard Philippe prende atto che il Covid-19 sta correndo. È finito il tempo di cafè e brasserie. Si chiude tutto, tranne le attività essenziali.
I francesi passano di corsa dalla normalità alla serrata, sono smarriti.

La sera prima del blocco totale nel 9 arrondissement, tra i locali della movida parigina, la cameriera Emilie si chiede «È davvero necessario? Capisco le discoteche e i cinema, ma noi possiamo distanziare i tavoli». Emilie considera l’epidemia come qualcosa di astratto: «So che c’è questo virus, ma io accanto ho solo persone che stanno bene». Per molti che affollano ancora bar e ristoranti è solo un sabato con l’occasione di un brindisi nuovo «alla salute del virus!», «un bicchiere alla fine del mondo!», sorridono Thomas e Luc, giovani informatici.

Un’incoscienza indotta da comunicazioni contrastanti che appare inquietante per gli italiani trapiantanti Oltralpe. «Sono rimasta esterrefatta, lo stesso giorno in cui ho parlato con la mia famiglia confinata alle porte di Roma, ho assistito a una conferenza all’università di Lione con centinaia di persone convinte che il virus non avrebbe toccate», spiega Marina Bellardinelli.

A lanciare da tempo la campagna #restezchezvous (restate a casa n.d.r) sono invece i medici in prima linea. «Il modello italiano deve entrare in vigore il prima possibile, è l’unica salvezza. Deve esserci la serrata, le persone non possono muoversi», dice Gilles Pialoux, primario del reparto di malattie infettive dell’ospedale Tenon di Parigi. Gli ospedali sono in tensione, la pressione monta. «Siamo già in una situazione di crisi, le terapie intensive si stanno riempendo». Per cercare di ammortizzare lo choc Pialoux è in costante contatto con i colleghi di Bergamo e Milano: «Dobbiamo combattere una guerra e stiamo cercando di fare un fronte comune, di trarre insegnamento dalla loro esperienza».

Intanto molti iniziano a preoccuparsi perché il governo ha stabilito di fare il tampone solo alle persone con sintomi già ricoverate in ospedale, agli operatori sanitari e a quelle particolarmente fragili e anziane. Per tutti gli altri nulla. Non va meglio sul fronte mascherine. Dopo l’epidemia dell’influenza suina i farmacisti sono obbligati a tenerne uno stock, ma ora le vendite sono contingentate, come la produzione interna che è su commissione dello Stato. Si tratta però delle mascherine chirurgiche, mentre quelle specifiche per contrastare il coronavirus non ci sono e i sindacati di medici e infermieri le reclamano a gran voce.

Troppo tempo sprecato. Senza nemmeno prepararsi all’emergenza. E adesso è tardi. Nel peggior scenario, senza interventi drastici, il comitato scientifico parla di 300 mila morti in pochi mesi. Anche i posti letto nelle terapie intensive sono in rapporto agli abitanti gli stessi che in Italia e i medici sono consapevoli del rischio di collasso. «Abbiamo 5 mila letti che possono diventare 12 mila trasformando le unità sub-intensive. Sono presenti sul territorio in maniera più capillare dell’Italia, ma abbiamo meno centri di eccellenza. Stiamo cancellando tutti gli interventi chirurgici programmati ordinari e cercando di spostare tutti gli altri malati in strutture diverse», spiega Jean-Michel Constantin, a capo dell’associazione medici rianimatori ed anestesisti francesi.

Nella regione focolaio del Grand-Est tra Mulhouse e Strasburgo, dove c’è stato un picco di contagi dopo un incontro religioso a metà febbraio, la crisi è già esplosa. «Su cento letti in rianimazione, ne abbiamo solo due liberi e siamo solo all’inizio», rivela il primario Jean-Philippe Mazzucotelli. E gli ospedali rischiano di trasformarsi in incubatoi del virus: «Con la terapia intensiva piena, alcuni contagiati vengono trasferiti nella rianimazione chirurgica polivalente con gli altri malati e così è già successo che un mio paziente che attendeva un trapianto di cuore ha preso il Covid-19».

Alle vittime del morbo manca l’aria, devono essere intubati e anche qui, in quella che è la Lombardia francese, i respiratori scarseggiano. «Possiamo requisire i respiratori dei blocchi operatori, ma possiamo equipaggiare solo 50 letti. Se colpirà come in Italia, ne serveranno più del doppio», sospira Mazzucotelli prigioniero da giorni in corsia. Perché a mancare è anche il personale con competenze specifiche. «Stiamo richiamando tutti quelli che hanno lavorato in terapia intensiva. Abbiamo preparato dei piani di formazione rapida: due settimane e poi all’opera. Corriamo contro il tempo» avverte il professor Constantin.

“12 mila” è il numero chiave: è il massimo di malati che il sistema francese può accogliere nelle terapie intensive. E nelle parole del primario, quel 12 mila viene evocato come la linea della Marna nella Prima Guerra Mondiale: l’ultima trincea, prima di venire travolti dall’invasione.

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